di EDA ÖZBAKAY e DIEGO FERRANTE
Quando è diventata traduttrice? Qual è stato il suo percorso professionale?
All'inizio degli anni 80 Barbara Lanati è stata la mia maestra all'università: fu lei a organizzare un primo seminario di traduzione all'università di Torino che definiva carbonaro, e che in realtà per me e per alcuni colleghi è stato fondamentale. In quel seminario, quasi un po’ per gioco, per audacia della nostra maestra, traducemmo insieme delle poesie di Amy Lowell, una poetessa americana di inizio Novecento. Ci divertimmo immensamente, era la nostra prima esperienza di traduzione e avevamo questa incredulità di poter lavorare sulla poesia. Alla fine del seminario Barbara Lanati parlò del nostro lavoro all'editore Einaudi, che decise di pubblicare il libro. Così è cominciata, in termini assolutamente improbabili perché partire con la poesia e con l’Einaudi, iniziare da studenti universitari è l'opposto di quanto è poi successo dopo. Però era stato intanto agganciato in noi un entusiasmo fortissimo per questo genere di pratica, c'era stata una sorta di apertura, questo crederci da parte di una docente come Barbara Lanati. Ovviamente negli anni a seguire, per farmi le ossa, ho tradotto anche testi di un valore letterario di tutt'altro livello, e poi sono partita nel 1988, quindi dopo 8 anni di gavetta, con un'altra fortuna: una prova di traduzione indetta sempre da Einaudi perché il nuovo romanzo di Ian McEwan era in quel momento rimasto senza traduttore. Partecipai a questa prova di traduzione per “Bambini nel tempo” e da lì ho cominciato. Per me è stato l'inizio di una fortunatissima collaborazione con Einaudi e con alcuni autori fantastici.
La cosa curiosa è che io sia partita insieme a questi altri colleghi dal fondo, cioè da quello che si raggiunge a fine carriera. È stata un'esperienza davvero esaltante, perché mettersi in contatto con la parola e con il dettato poetico di Amy Lowell è stato un privilegio assoluto che ci ha permesso di affacciarci a questo mestiere in modo estremo. La poesia mette di fronte praticamente all'impossibile. Essere in tanti voleva dire misurarci, negoziare tra di noi, ammirare qualcuno che aveva avuto un'idea, farsi venire altre idee sulla scorta di quello che si era sentito. Fu un'esperienza davvero entusiasmante. In realtà, invece, la pratica della traduzione ti mette di fronte alla solitudine del traduttore, perché nei lavori che si susseguono negli anni, a parte gli incontri meravigliosi con dei colleghi, sei solamente tu e il tuo testo.
Credo che questo sia, in fondo, il regalo più grande che la traduzione offra in tutte le angosce che produce, in tutte le sensazioni di inadeguatezza: scoprire la molteplicità di un testo a partire dalla constatazione che la lettura è molteplice. La traduzione è un gioco in perdita che si recupera in molteplicità, rimandando alla possibilità che qualcun altro trovi qualcos'altro, o tu stesso anni dopo o il giorno dopo. Non importa come ci si arriva, ma non è mai finita lì. L'insoddisfazione è sicura ed è costante però rimanda a un'altra possibilità.
Secondo me anche per il traduttore stesso, nel tempo, si apre una molteplicità nelle scelte, anche nell'interpretazione di quanto ha scritto in precedenza. Non rileggo volentieri le mie traduzioni, non perché le disconosca, ma perché – come nel racconto di Borges – incontrare lo sconosciuto che siamo stati molti anni prima mette un po’ in imbarazzo. Magari anche nello scoprire di essere stati a tratti molto più temerari o addirittura più brillanti. Io riconosco alla me stessa di molti anni fa un’audacia sui testi che adesso non ho più. Sembra tutto più esitante ora. Spero di avere guadagnato qualcosa in termini di consapevolezza, ma se rileggo delle mie traduzioni passate, ho la sensazione di essere quella lì. Sebbene non del tutto.
Nel ricevere il Premio Pavese 2019 ha evocato un’immagine molto suggestiva cui ha fatto ricorso anche in passato, quella della lentezza e dell’esitazione del tradurre: “il tempo della sospensione silenziosa durante il quale accetto di abitare l’ansia della scelta”. Se l’esitazione e l’attesa sono strumenti necessari, cosa le permette poi di interromperle e quindi tagliare, cancellare, scegliere tra le parole e le frasi?
Ci sono giornate lisce e giornate molto spinose e ci sono testi o parti di testi che sono più lisce e altre più spinose. Quando qualcosa blocca la traduzione (in poesia è praticamente ogni singola sillaba, ma in prosa accade lo stesso) succede che si va, per esempio, cambiando il modo della scrittura. Se sono alle prese con un romanzo e a un certo punto entro nella parte dialogata, devo ricorrere a degli strumenti diversi da quelli che uso per tradurre la parte descrittiva, perché il dialogo deve essere vivo. Si crea, quindi, una lentezza che a volte può persino distorcere un po’ la narrazione. Quando il tempo trascorso su una stessa frase, su uno stesso paragrafo diventa troppo lungo, si perde un po’ di vista il dove eravamo, quindi poi le riletture andranno fatte in vari modi. Che cosa mi convince a un certo punto a scegliere? Potrei dire molto banalmente quando non c'è più tempo. A volte la parola arriva quando non ci sto pensando, magari quando ho smesso di lavorare e sto facendo tutt'altro. Altre volte, invece, arriva con quella che io definisco la resa del testo, cioè come un arrendersi oltre che un restituire. Mi arrendo al fatto che devo scegliere una cosa sacrificando qualcos'altro. Ho dei colleghi traduttori che sono straordinariamente intuitivi. Io non mi considero tra questi. Ho anch'io i miei momenti di intuizione, ma direi che l'intuizione non è la mia caratteristica di lettrice, credo sia più la pazienza. La mia compagna di viaggio esistenziale e anche di lavoro a lungo è stata Rossella Bernascone. A lei vengono proprio delle folgorazioni che ho invidiato a lungo, ma poi a un certo punto ho capito che era inutile sperare di acquisire il suo modo, il mio era un altro. Era più che altro andare giù, andare verticalmente. Se non riuscivo a stare in superficie e avere un'intuizione, andavo in profondità. Ci sono tantissimi traduttori come Daniele Petruccioli, Maurizia Balmelli o Marco Rossari che hanno veramente questa specie di intelligenza folgorante sul testo.
In un’intervista ha affermato di raccogliere i suoi appunti di traduzione in un quaderno e di rileggere a voce alta la traduzione a fine giornata. Nell’affrontare un nuovo testo, quali sono i passaggi e i metodi che utilizza?
Quasi sempre leggo prima tutto il romanzo. Devo dire che sono arrivata a un punto del mestiere in cui è raro che i romanzi siano di autori che non conosco, perché ormai sono un traduttore di lungo corso. Comincio quasi sempre sulla scorta della traduzione precedente di quello stesso autore. Può essere Julian Barnes, può essere perfino Alice Munro, ormai sono autori di cui ho tradotto molti testi, e vado sulla scrittura più che sulla narrazione. Mi confronto con il modo di fraseggio. Adesso sono alle prese con un nuovo McEwan che mi rimette tutto in discussione perché ha un modo di fraseggiare in parte diverso dal solito e quindi sono un po’ spiazzata. Ma a parte questo, dopo 13 romanzi, riconosco i segni dell'antica fiamma. Ho qui davanti a me il mio quaderno in cui sto traducendo. Prima io lavoravo così, poi è diventato un vezzo e adesso è diventato un lusso. Per me lavorare sulla carta e tradurre a mano è come partire artigianalmente dal gesto. È tutto un altro modo di lavorare. Faccio piccolissime cose al computer, lo uso per la ricerca sui dizionari. Però scrivere e correggere andando avanti e indietro, cancellare ancora e ancora su carte è proprio un altro modo di lavorare. La trascrizione del testo su computer è affidata a una persona meravigliosa che ho la fortuna di avere incontrato e che da anni mi segue in questo lavoro. Quindi è nata questa specie di garbatissima amicizia fatta di parole. Io affido a questa persona i miei quaderni e so che sono in ottime mani. Da lì arrivano nelle mani del revisore in casa editrice. È tutto un privilegio che ho conquistato con molto lavoro però a questo punto posso dire che tutte le persone presenti intorno al mio lavoro sono stupende. Mi aiutano moltissimo.
Nel 2016 ha ricevuto l’incarico di tradurre tutti i romanzi di Jane Austen per i Meridiani. Quando si confronta con un classico che ruolo hanno le traduzioni esistenti nel procedere del suo lavoro? In che modo questo lavoro di ritraduzione pensa faccia emergere qualcosa di nuovo in testi ormai parte del canone letterario?
Il dono della traduzione è la molteplicità. Ogni traduzione non è l'ultima, le traduzioni, come sempre si ripete, invecchiano a differenza degli originali. Vuol dire che lasciano spazio al nuovo, non invecchiano nel senso che ormai non sono più valide. Penso che il punto della vecchiaia sia che mantiene delle qualità ma apre alla possibilità che qualcun altro si affacci sullo stesso testo. Questa è una delle risposte. Un'altra, invece, si riassume con la risposta data da un mio allievo del liceo alla domanda “Che cosa è la traduzione?”. “La traduzione, secondo me, è farci caso”. Credo che ciascun traduttore di un classico abbia un suo modo di far caso a quello che sta leggendo che non è solo il testo fonte, ma anche i testi tradotti da altri colleghi. Far caso a quello che è successo nel passaggio da una lingua all'altra in tempi diversi. Di Jane Austen ovviamente ci sono tantissime traduzioni che attraversano molte fasi anche della teoria sulla traduzione, e raccontano una cosa che ha a che fare con il tempo in cui sono state prodotte. Dove mi metto io a osservare il testo a partire da qui e ora? Come dice Alice Munro rispetto a se stessa, “I write from where I am in life”. Ecco, io traduco da dove mi trovo nella vita, quindi da questo punto di osservazione torno su quel testo e vedo che cosa, facendoci caso, posso notare e che forse vale la pena di far presente ai lettori. Mi è successo con Jane Austen. Faccio un esempio: ci sono alcuni personaggi in Ragione e sentimento di Jane Austen che commettono errori di grammatica. Questi errori di grammatica nelle traduzioni che ho visto sono stati emendati. Però è la stessa Jane Austen che sceglie di far parlare questi personaggi inserendo delle anomalie linguistiche. A me è sembrato giusto rispettare queste anomalie, inserirle, trovare un modo per far sentire al lettore che quel personaggio non domina la lingua come gli altri, perché se non domina la lingua come gli altri, allora fa finta di appartenere a una determinata classe sociale.
Una delle sfide più complesse del tradurre è dare ospitalità alla voce dell’altro nella propria lingua senza ridurre o schiacciare l’elemento estraneo. Nel processo di traduzione come evitare una captazione della lingua dell’altro – un’assimilazione etnocentrica direbbe Berman – che non fa trapelare anche le incongruenze o lo stridore tra le due lingue? Cosa significa in questa prospettiva rendere giustizia al testo?
Quanto ci si avvicina alle estraneità e quanto invece si avvicina l'estraneità a noi credo sia il punto della traduzione. In quello sta il negoziato continuo, il non forzare troppo né in un senso né nell'altro. Il non trascinare verso l'italiano a tutti i costi perché sarebbe snaturare e, soprattutto, togliere al lettore un'esperienza che invece va fatta. L'esperienza di leggere in traduzione è un'esperienza che il lettore deve sentire. D’altra parte, trovo che anchilosare il testo in un’estraneità forzata per ricordare costantemente che quello che si legge proviene da un'altra lingua non rende giustizia all'esperienza meravigliosa che è la lettura. Leggere è un intrattenimento meraviglioso. Nella jouissance, nel piacere del testo, c’è qualcosa che ha a che fare anche con la responsabilità di restituire il piacere del testo. Ciò non significa trascinarlo in un testo italiano, ma rispettare quello che si è provato. Per esempio, con l'ultimo Ishiguro, Klara and the Sun, abbiamo chiesto alcune cose perché c'era un impianto linguistico da rispettare, determinato dal fatto che la voce narrante era una macchina. Dovevamo, quindi, domandare a Ishiguro come immaginasse questa voce. È stato gentilissimo anche se le sue parole non hanno sciolto le difficoltà, perché, alla fine, sono di nuovo io a decidere nel testo. Ma al di là di questo, aiuta sentire l’autore che, a sua volta, prova a dirmi come ha tradotto quello che voleva dire in parole – perché, dopotutto, sempre di quello si tratta. È una traduzione originale, se vogliamo, ma è pur sempre una traduzione.
Di grande supporto è anche il confronto con la casa editrice. Un privilegio di chi traduce autori di grandissimo livello e che più l'autore è di alto profilo e più l'estraneità è consentita. Man mano che ci si abbassa di livello si chiede una maggiore leggibilità e scorrevolezza, questa è una legge editoriale. Se a fare cose un po’ irte è un autore come McEwan è possibile e doveroso andargli dietro, ma è anche possibile a livello editoriale.
Tra i diversi autori di cui ha curato la traduzione italiana Alice Munro e Ian McEwan ci sembrano avere un posto speciale. Come ricordava, la sua prima traduzione di McEwan è Bambini nel tempo nel 1988 – mentre l’uscita di Il sogno di mia madre di Munro è del 2001. Da questi due momenti ha curato la loro traduzione in maniera continuativa: cosa è cambiato e cosa ha significato frequentare e accompagnare la loro scrittura in tutti questi anni?
Nel caso del lavoro su McEwan la mia aspettativa è di una fatica impervia, per quanto ogni romanzo di McEwan inserisce all'interno della narrazione un campo del sapere diverso che va dalla neuroscienza all'intelligenza artificiale, dalla musica classica alla medicina o alla psichiatria. McEwan impone la presenza di informants nel processo di traduzione perché si documenta in modo capillare. Ho l'aspettativa di una scrittura impeccabile. Quindi, dal punto di vista del mio lavoro di traduzione, la scrittura di McEwan mi porta a scrivere bene. Seguire la sua scrittura è una garanzia, è un tandem in cui lui pedala davanti a me e non sbaglia mai una curva. Mi basta accodarmi. È stato così per tutti i libri. Naturalmente come lettrice non ho amato tutti i libri di McEwan nello stesso modo, perché il lettore che è in me cerca qualcosa che ha a che fare con il vissuto. Ma come traduttrice sì. Il traduttore va sulla frase e lì sono tutti sempre dei capolavori di scrittura. Il capitolo più felice probabilmente della mia vita di traduttrice, quello in cui mi sono sentita più a mio agio, è nella scrittura di Alice Munro. Non solo perché ho tradotto tutte le sue opere. A un certo punto mi sembrava di conoscere la sua lingua. È una lingua davvero speciale per me, nella quale ho riconosciuto delle cose anche un po’ imbarazzanti. A un certo punto del mio percorso sulle storie di Alice Munro è morta mia madre e questo lutto è andato a insinuarsi linguisticamente nella traduzione, che è diventata più aperta ai piemontesismi. Ovviamente provenivano da mia madre, e questa specie di lingua perduta per la sua assenza è come se fosse approdata all’interno del mio lavoro. Naturalmente ho dovuto eliminarla dal testo, però mi ha raccontato delle cose di me, del fatto che mi mancava quella lingua. Mia madre e Alice Munro sono coetanee, è come se avessi attribuito a quella scrittura la possibilità di ospitare una lingua madre nel senso più letterale della parola. Queste cose le ho provate solo traducendo Alice Munro, con nessun altro autore.
*EDA ÖZBAKAY
È una traduttrice e docente turco-tedesca. Intraprende studi in musicologia negli anni di formazione in Germania, si laurea a Roma in Lingua e Letteratura Inglese e Spagnola. Per Del Vecchio Editore ha tradotto opere di Çiler Ilhan e Burhan Sönmez. Scrive di musica. Redattrice di zetaesse.
*DIEGO FERRANTE
Scrive di filosofia, arti visive e scienze umane. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di teoria politica, collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli.
ora capisco perché la traduzione di Chi ti credi di essere di Alice Munro, che ho appena finito di essere, mi ha catturato. Grazie! Bravissima Susanna e bravi gli intervistatori