di EDA ÖZBAKAY e DIEGO FERRANTE
Saleh Kazemi nasce nel 1992 a Teheran, dove vive fino ai suoi 18 anni, quando si trasferisce in Italia per studiare all’Accademia di Belle Arti di Roma. La fotografia documentaria è la sua prima attività artistica professionale, ma decide in seguito di allontanarsene per dedicarsi al disegno. La sua vita è sempre in viaggio, con un taccuino nella borsa sul quale disegna le persone, i luoghi e quanto vede accadere intorno a sé.
Vivi lontano dalla tua terra natia da molti anni. Cosa rappresenta l`Iran per te in questo momento? Una distanza geografica o una distanza nel tempo?
Forse più una distanza nel tempo. In realtà la mia città – Teheran – è cambiata tanto da quando mi sono trasferito in Italia e, anche se in questi anni sono tornato in varie occasioni, ogni volta mi ritrovo più distante dalla città che ho lasciato.
D’altra parte, mi capita anche di avvertire la distanza geografica: mi manca la mia famiglia e mi spiace non riuscire a viverla quanto vorrei.
Prima di approdare al disegno privilegiavi il linguaggio fotografico. Cosa ti ha spinto a mettere da parte la fotografia? Cos`è che la macchina fotografica non vede, e che invece sei riuscito a captare nel dialogo con la realtà tramite il disegno?
Uno dei motivi principali per questa scelta è stata la ricerca di un linguaggio più personale e riconoscibile. Una seconda ragione è stata la possibilità di essere indipendente dalla tecnologia nel creare qualcosa di originale.
Anche con la fotografia ho sempre cercato di raccontare uno spazio e il dialogo che c’è tra oggetti e forme, ma con il disegno ho molta più libertà nello scegliere tra gli elementi che desidero ritrarre e che magari non sono vicini. Oppure posso eliminare alcune cose che non mi interessano! In pratica, per disegnare una stanza scelgo tutti elementi che la rappresentano e li metto assieme, in modo che il risultato non sia uno scatto realistico e fedele – come in una foto – ma permetta, a chi l’ha vista, di riconoscere immediatamente la stanza, o trasmetta la sua atmosfera a chi la vede per la prima volta.
Le tue opere sono spesso ricche di dettagli, eppure lo spazio al loro interno non
risulta saturo. In che modo acconsenti ai tuoi lavori di respirare?
Come dicevo, potendo scegliere la disposizione fra gli elementi nello spazio, spesso affianco oggetti con più dettagli e oggetti più semplici. Forse è in questo modo che riesco a trasmettere un senso di leggerezza.
Di solito disegni la scena che hai di fronte in una sola sessione o lavori con l`aiuto di un`immagine fotografia? L`immagine conclusiva delle tue opere è più vicina alla realtà o a un ricordo?
Ci sono due tipologie di disegni, il primo è di tipo documentario, e li realizzo nei piccoli quaderni che ho sempre con me. In quel caso disegno sul posto finché ne ho la possibilità. A volte succede qualcosa che non mi permette di continuare: un locale sta per chiudere, sono in viaggio e raggiungo la mia destinazione, sto disegnando all’aperto e il sole tramonta, o semplicemente sto aspettando una persona che finalmente arriva. Di solito non tocco più quei disegni, e hanno il valore di documentare quel preciso momento.
Ci sono poi i disegni di grande formato su tela o cartoncino – talvolta sono lavori su commissione – che realizzo in studio con l’aiuto di tantissime foto. Questi disegni normalmente mi impegnano per molto tempo e portano via tante energie: devo attenermi alle foto e fare attenzione alle proporzioni. Con i disegni dal vivo questo aspetto non rappresenta un problema.
Hans Bellmer, nell`”Anatomia dell`immagine” sostiene che “L`opposizione è necessaria affinché le cose siano e si formi una terza realtà.” Nel rapportarti ai soggetti delle tue opere cerchi l'opposizione oppure una vicinanza, un`affinità?
Dipende molto dal tipo di disegno. Per esempio, nella serie dedicata alle “attese”, disegni che normalmente realizzo sui mezzi di trasporto o in stazione, non cerco per forza una vicinanza, ma racconto semplicemente la realtà dal mio punto di vista. Nei ritratti, invece, per poter trasmettere l’umore e la personalità del soggetto ho bisogno di una conoscenza più approfondita della persona. La vicinanza mi è fondamentale.
In più circostanze ti sei confrontato con l’autoritratto, questa pratica ha per te il valore di una testimonianza o di una esplorazione? Chi incontri mentre disegni un autoritratto?
Normalmente realizzo gli autoritratti quando mi accade qualcosa d’importante. È come documentare la mia vita in quel giorno specifico, o in alcune date particolari, come il primo giorno d’autunno o di primavera. A volte mi disegno anche quando sono nervoso o triste, per sfogarmi. In realtà non ho mai cercato di dare un significato specifico a un autoritratto, mi limito a disegnare le forme e le linee del mio volto, quelle linee che cambiano con l’umore o gli avvenimenti, e che vorrei memorizzare.
*EDA ÖZBAKAY
È una traduttrice e docente turco-tedesca. Intraprende studi in musicologia negli anni di formazione in Germania, si laurea a Roma in Lingua e Letteratura Inglese e Spagnola. Per Del Vecchio Editore ha tradotto opere di Çiler Ilhan e Burhan Sönmez. Scrive di musica. Redattrice di zetaesse.
*DIEGO FERRANTE
Scrive di filosofia, arti visive e scienze umane. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di teoria politica, collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli.
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