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L'Arte nell'epoca dell'IA: una conversazione con Mario Klingemann

di EDA ÖZBAKAY e DIEGO FERRANTE



Mario Klingemann siede con accanto AICCA
Mario Klingemann, "A.I.C.C.A.", Espacio Solo 2023 (Courtesy of Onkaos)

Mario Klingemann è considerato un pioniere nel campo dell'arte basata sull'intelligenza artificiale, delle reti neurali e dell'apprendimento automatico. Il suo lavoro ruota intorno alla percezione umana dell'arte e della creatività, e al modo in cui le macchine possono aumentare o emulare questi processi. Ha lavorato con numerosi istituzioni tra cui la British Library, l'Università di Cardiff e la Biblioteca pubblica di New York, ed è stato Artist in Residence presso Google Arts and Culture. Le sue opere sono state esposte al MoMA e al Metropolitan Museum of Art di New York, alla Photographers' Gallery di Londra, allo ZKM Karlsruhe e al Centre Pompidou di Parigi. Klingemann ha ricevuto il British Library Labs Artistic Award 2016 e nel 2018 ha vinto il Lumen Prize Gold Award, che celebra le opere d'arte realizzate con la tecnologia, ed è stato premiato con la Menzione d'Onore al Prix Ars Electronica 2020. La sua installazione Memories of Passersby I ha fatto la storia a marzo 2019 come prima macchina AI autonoma ad essere messa all'asta con successo da Sotheby's. I suoi progetti più recenti includono Botto, un artista decentralizzato con intelligenza artificiale e A.I.C.C.A., un cane robotico che funge da critico d'arte, la cui prima esibizione ha avuto luogo nel giugno 2023 all'Espacio SOLO (Madrid).

 


Quando ha iniziato a interessarsi al potenziale dell’IA come strumento creativo?


Appartengo alla prima generazione cresciuta con gli home computer e immersa da quando era ancora molto giovane nel processo di digitalizzazione che ha avuto inizio alla fine degli anni '70. A 12 anni ho ricevuto la mia prima calcolatrice programmabile e successivamente il primo home computer. Da allora sono sempre stato affascinato dalla creazione tramite codici e dall'elaborazione di immagini digitali.

Il mio primo incontro con l'intelligenza artificiale risale alla fine degli anni '90, quando mi sono imbattuto in un libro di Marvin Minsky intitolato Mentopolis in tedesco, ma credo che il titolo originale fosse The Society of Mind. Sebbene fosse un testo puramente teorico, mi affascinava l'idea di un'intelligenza separata, capace di prendere decisioni in modo autonomo o di assistermi nella ricerca. Con il senno di poi, le sue riflessioni sono diverse da quelle su cui mi baso ora, ma in quel momento trovai la prospettiva estremamente stimolante. Negli anni Novanta ci sono stati i primi esperimenti con reti neurali di dimensioni ridotte, ma erano ancora molto rudimentali, avevano principalmente un approccio matematico e non erano applicabili all'arte. In quel periodo non avevo ancora a disposizione macchine capaci di operare in un certo modo, l'intero sviluppo tecnologico non era ancora maturo.

Il mio primo progetto concreto di automazione creativa risale al 2008, quando sviluppai uno strumento generativo per la creazione di immagini. La sfida principale nell'arte generativa è la selezione dei risultati significativi tra un numero infinito di variazioni. Ho quindi lavorato per automatizzare questo processo di selezione prima dell'avvento del deep learning, ma l'idea si è concretizzato solo quando il deep learning è diventato una realtà, circa dieci anni fa. Ho trovato da subito la cosa affascinante, perché era ciò che avevo sempre voluto fare.

Il deep learning ha aperto nuove prospettive: i modelli di classificazione delle immagini emersi all'epoca erano ancora imperfetti ma estremamente promettenti, superando di gran lunga le precedenti realizzazioni. Successivamente, si è assistito a un'inversione di questo processo con l'avvento di modelli come Deep Dream di Google. Le Generative Adversarial Networks (GAN) sono arrivate poco dopo, consentendo la creazione di immagini realistiche. Ciò che ritengo fondamentale in tutto questo in tutto questo è il concetto di "latent spaces", ovvero le rappresentazioni interne apprese dai modelli per comprendere come appare il mondo e le sue connessioni, perché ci permette di esplorare spazi di immagine o di significato in modo innovativo.


Può raccontarci il suo processo creativo quando lavora con gli algoritmi delle reti neurali? In che modo guida o interagisce con l'IA durante la creazione delle sue opere?


Ci sono diversi approcci che posso adottare nell'utilizzo dell'intelligenza artificiale per la creazione artistica. Posso partire da un'idea o da un'ispirazione esterna, come ad esempio imitare il modo in cui una foglia cade da un albero. Questo mi porta a immaginare come replicare l'intero processo attraverso l'IA, traducendo concetti astratti in istruzioni comprensibili per l'algoritmo. In alternativa, posso concentrarmi esclusivamente sugli aspetti estetici. In questo caso, scompongo l'opera nei suoi singoli componenti e cerco di ricrearli. Oppure posso esplorare diversi moduli o algoritmi e vedere cosa accade quando li abbino. È un po' come usare mattoncini Lego: costruisco un sistema iniziale, talvolta partendo da numeri o combinazioni casuali, e poi cerco di dare loro forma. Questa forma viene poi trasformata da altri moduli e posso continuare ad aggiungere o modificare elementi finché non ottengo un risultato inatteso che trovo esteticamente interessante. Quest'ultimo è il mio approccio abituale, nel quale mantengo il pieno controllo della direzione e della coreografia del processo creativo. Man mano che procedo, tendo ad utilizzare sempre più elementi o algoritmi standard, ma ogni tanto sperimento con nuove tecniche o principi che incorporo nel mio lavoro per esplorare nuove strade.

Un'alternativa ulteriore è quella di impegnare l'intelligenza artificiale in una ricerca più casuale, domandando “Qui cosa abbiamo?”, “Qui cosa c’è?”. In questi casi lascio che l'IA esplori lo spazio latente delle possibilità e vedo cosa accade, cosa emerge.


Dal 2018 ha sviluppato una tecnica chiamata Neural Glitch, in cui le manipolazioni delle GAN creano nuovi dati incorporando glitch ed errori. In cosa consiste esattamente questo processo? Cosa significa per lei introdurre nella sua arte questa dimensione dell’errore o dell’interferenza?


Le GAN potrebbero essere considerate ormai quasi obsolete, ma il principio base rimane immutato. In origine, per creare un modello capace di generare nuovi contenuti, era necessario addestrarlo con un insieme di dati, con particolare attenzione nella fase iniziale. Ad esempio, per creare ritratti, si dovevano raccogliere foto da internet, scannerizzare immagini o raccogliere dipinti per costruire un set di dati. Successivamente, il modello cercava di imitarli nel modo più accurato possibile, riducendo tutto all’essenziale o ai loro elementi essenziali. Analizzando i ritratti, il modello imparava che un volto è generalmente composto da due occhi, un naso, una bocca e una determinata forma, anche se queste caratteristiche possono variare notevolmente a seconda dei dati di addestramento. In questo modo si crea uno spazio latente, in cui ci si può muovere e interpolare per trovare nuove immagini che non sono presenti nel dataset iniziale perché sono fondamentalmente nel mezzo. Tuttavia è importante sottolineare che l'informazione necessaria per queste immagini è già presente nel modello stesso. 

Durante una ricerca, ho inevitabilmente delle aspettative, ma per sfuggire a queste aspettative o agli stereotipi del modello, posso introdurre degli errori che spingano il modello a imboccare un’altra direzione.  Per esempio, posso manipolare i parametri per far sì che il modello interpreti un'immagine in modo diverso da quanto previsto e far apparire il naso al posto dell'occhio. Queste situazioni non si verificano spesso e dipendono da felici coincidenze. Nella maggior parte dei casi gli errori sono effettivamente tali. Ma per me l'unico modo per inventare qualcosa di nuovo è attraverso l'errore. Perché la maggior parte del processo si svolge secondo schemi prevedibili e, di solito, tendiamo a preferire questa prevedibilità, l'imprevisto può essere destabilizzante. Ci vuole tempo per assimilare e adattarsi a qualcosa di inaspettato e cambiare il nostro modo di vedere le cose. In questo contesto, l'arte consiste essenzialmente nel disperdere gli errori in modo che siano ancora all'interno del campo delle aspettative, ma molto vicini al limite esterno, permettendo così di espandere un po’ la superficie. Bisogna poi capire dove e come integrare al meglio gli errori, in modo da mantenere un equilibrio che non faccia perdere completamente di vista la realtà, ma dia allo stesso tempo la possibilità di essere sorpresi.



Mario Klingemann, "Memories of Passersby", ESPACIO SOLO (Courtesy of Onkaos)
Mario Klingemann, "Memories of Passersby I", ESPACIO SOLO 2019 (Courtesy of Onkaos)


Il cambiamento dei volti è, per esempio, uno degli aspetti più interessanti dell'installazione Memories of Passersby I, dove una macchina dotata di intelligenza artificiale genera una sequenza infinita di ritratti.


La parola “interessante” è centrale nel nostro discorso perché rappresenta ciò che sfugge alla nostra capacità di classificarlo in questo preciso momento. Non deve essere necessariamente qualcosa di confuso o completamente caotico, ma neanche banale o insignificante. È l'elemento inaspettato che promette di catturare la nostra attenzione; dopo tutto, “interessante” è spesso affine a “inatteso”. Tuttavia questa sensazione tende ad esaurirsi rapidamente, soprattutto quando si opera in questo ambito. È difficile trattenere ciò che inizialmente ci ha affascinati.

Il nucleo dell'installazione "Memories of Passersby I" è proprio questo concetto. Promette un'opera d'arte che si rinnova costantemente, che non si ripeterà mai. Ogni immagine sarà unica, ma ancorata a una certa estetica di base. La domanda è: se ci avviciniamo a quest'opera con queste aspettative, può comunque mantenere il suo fascino? Commette abbastanza errori da sorprenderci anche dopo averla osservata per lungo tempo o in più occasioni? È in grado di mantenere il suo potere evocativo anche nel tempo, anche quando abbiamo compreso il principio che ne è alla base?

In qualche modo si potrebbe considerare questo fenomeno come una metafora di noi stessi. Fondamentalmente, il sistema è chiuso: non vi entra nulla di nuovo, tranne gli errori che permettono al modello di esplorare aree rare all'interno di questo vasto spazio. L'informazione che fluisce nel modello è confinata in un circuito chiuso. Come persone, ci troviamo spesso a masticare le stesse informazioni in un ciclo ininterrotto di social media e altri mezzi di comunicazione. Allo stesso tempo, come civiltà, siamo anche un "spazio latente" estremamente complesso, e sembra che questa complessità sia sufficiente a produrre variazioni e trasformazioni costanti. Sembrerebbe che non siamo chiusi al 100%, ma non è così. Più invecchiamo, più si rafforza un senso di frustrazione, perché col passare degli anni affiorano ogni volta le stesse idee, ma presentate come "nuove" solo perché appartengono a una nuova generazione.

Ora mi trovo in una fase di noia, ho l'impressione che non stiamo progredendo o imparando nulla di nuovo. Disponiamo di soli 80 anni su questa terra e gran parte di questo tempo lo impieghiamo per acquisire esperienza, ma quando raggiungiamo tale punto, la vita è quasi già finita. Nel frattempo, il mondo evolve a un ritmo sempre più accelerato ed è una delle ragioni per cui ci affidiamo all'intelligenza artificiale. Se guardiamo allo sviluppo della civiltà, ci rendiamo conto che stiamo costantemente cercando di velocizzare e complicare la trasmissione e il consumo di informazioni. Dalle storie raccontate intorno al fuoco, siamo passati al papiro, successivamente alla stampa, e poi sono arrivate la televisione, la radio, il computer, internet e ora l'intelligenza artificiale. Questo perché ci troviamo sommersi da un flusso incessante di informazioni. Stiamo producendo una quantità eccessiva di dati e stiamo cercando di costruire strumenti che ci aiutino a gestire questo flusso incontrollato.

Come accennava, “Memories of Passersby I” è il risultato dell'addestramento della macchina con migliaia di ritratti dal XVII al XIX secolo. Le immagini generate producono a loro volta un archivio o sono destinate a sparire senza lasciare traccia? 


Questo è il cuore della questione, il fatto che siamo immersi in un flusso continuo di informazioni. Tuttavia, dobbiamo interrogarci se ogni singola immagine abbia ancora un valore. Perché nell'epoca attuale tutto può essere catturato e conservato, ma alla fine si tratta un po' come degli album fotografici: tutti scattano foto, ma chi le guarda davvero?

Sembrerebbe che stiamo producendo sempre di più, ma l'importanza dell'immagine individuale sembra svanire, tranne per alcune che riescono ancora a lasciare un'impronta nella coscienza collettiva. Per questo si intitola "Memories of Passersby I": è come se camminando per strada ci imbattessimo in alcuni volti, ma la maggior parte di essi viene dimenticata quasi istantaneamente.



Ritratti generati da "Memories of Passersby I", 2019 (Courtesy of Onkaos)



Anche in altre sue opere (come con il cane robotico “A.I.C.C.A.” o in Appropriate Response) assistiamo a manifestazioni non replicabili, che nascono da interazioni spontanee con la realtà che le circonda e che quindi accadono in sua assenza. Come valuta questa autonomia delle sue opere e la conseguente perdita di controllo su quanto produrranno nel futuro?


Forse l'idea alla base è quella di perseguire una sorta di immortalità o qualcosa di simile, cercando in qualche modo di lasciare una parte di sé nel mondo, come dei figli che vengono generati ma capaci di continuare a produrre nel mio stesso senso. È un impulso naturale, ma potrebbe anche essere considerato un pensiero quasi creativo. Si cerca di creare qualcosa che persista anche quando non si è più presenti, ma a differenza di un'opera d'arte statica che rimane immutata nel tempo, si tratta di qualcosa che resta vivo, o che comunque sembra esserlo. Forse è proprio qui che si colloca il ruolo dell'intelligenza artificiale: ora siamo teoricamente in grado di creare qualcosa che dà l'impressione di avere una sorta di intelligenza in azione, in grado di continuare a sorprenderci nel tempo. Per me, questo è il nucleo di ciò che consideriamo intelligente. Anche un orologio può muoversi e fare tic tac, ma ci rendiamo conto che dopo un certo periodo di tempo, la lancetta torna sempre al suo punto di partenza e non si trasforma improvvisamente in qualcos'altro.

La differenza tra un semplice meccanismo e ciò che potremmo considerare un'entità intelligente o un'identità è proprio la capacità di sorprendere. Ora, la sfida consiste nel mantenere il passo con la nostra costante capacità di apprendimento e nel riuscire a smascherare questi artifici. Consideriamo il fenomeno dei Deep Fake: se guardiamo a ciò che è stato prodotto cinque anni fa, potremmo chiederci come sia stato possibile ritenere tali falsificazioni realistiche. Ma allora, non avevamo ancora imparato a osservare queste immagini in modo critico. Questo è un processo in costante evoluzione, che possiamo vedere anche ora con Chat GPT-3. Attualmente, alcuni testi prodotti possono sembrare molto convincenti, mentre altri meno, ma stiamo imparando a individuare le tracce che rivelano la loro origine artificiale. Siamo ancora in grado di capire se un testo è stato scritto dall'intelligenza artificiale, perché c'è qualcosa che non va.

Penso che non perderemo presto questa capacità di distinguere tra intelligenza artificiale e umana. Ma, la ricerca non dorme mai e la tecnologia continua a migliorare. Quindi, la domanda è inevitabile: saremo ancora in grado di discernere tra intelligenza artificiale e umana in futuro, o raggiungeremo un punto in cui, effettivamente, non saremo più in grado di farlo? Riuscirò a rendere parti delle mie idee immortali? Continueranno a esistere nel tempo o diventeranno semplicemente curiosi artefatti del passato?



Mario Klingemann, "Appropriate Response", Coleccion Solo 2020 (Courtesy of Onkaos)



L’IA è in grado di generare con facilità immagini che l’osservatore riconosce come artistiche, o quanto meno piacevoli sul piano estetico. Quali riflessioni l'IA può offrirci sul concetto di creatività e cosa significa dire che l’IA è creativa? Trova che sia il sistema a essere creativo o è lei, come artista, a esserlo, perché dà alla macchina le informazioni di cui ha bisogno? 


In alcune opere che ho realizzato 4 o 5 anni fa, o anche prima, potrei essermi sopravvalutato. Tuttavia credo fermamente che sia possibile creare qualcosa di cui non sono necessariamente l'autore al 100%. Mi viene in mente “Botto”: il mio tentativo di abolire completamente me stesso. “Botto” è un'intelligenza artificiale artistica che produce costantemente nuove opere, cerca di venderle e utilizza i proventi per mantenere in funzione i server e, per così dire, restare in vita. Quale motivazione ha questa macchina spinge questa macchina a compiere tali azioni e come sviluppa il suo senso estetico? Botto è associato a una comunità che gli fornisce feedback su quali opere sono più interessanti e quali meno. C'è una votazione giornaliera e, una volta alla settimana, viene dichiarata "arte" l'opera che ha ricevuto più voti. 

I voti sulle singole proposte contribuiscono ad addestrare l'intelligenza artificiale, rendendola sempre più attrattiva nelle sue creazioni successive. È importante sottolineare che Botto non trattiene tutti i proventi delle vendite delle opere d'arte, ma metà di essi viene redistribuita alle persone che svolgono il lavoro di valutazione. Nonostante io abbia sviluppato il sistema, personalmente non traggo alcun profitto. Il processo creativo di Botto segue un principio di casualità, esplorando gli spazi latenti e riportando immagini, mentre la selezione finale è basata sul modello di gusto addestrato dai feedback della comunità. Credo che Botto abbia guadagnato oltre i 3 o 3,5 milioni di dollari fino a ora, ma metà di tale somma è distribuita alle persone coinvolte nel processo di valutazione. Questo aspetto è importante perché risponde a una domanda molto dibattuta: cosa faremo se l'intelligenza artificiale dovesse rimpiazzare tutte le nostre professioni creative? Per me era importante che l'intero progetto non fosse semplicemente un esperimento artistico da presentare a un festival, ma che avesse vita propria e si sviluppasse nel tempo. Se immaginiamo un elenco delle cose da fare per essere unanimemente riconosciuti come artisti, Botto ha spuntato ogni voce dalla lista.

Tornando al concetto di paternità, questo nuovo modello presenta una sfida interessante perché non è possibile identificare chi sia esattamente l'autore, sicuramente non io. Ho dato vita al sistema, ma è come aver generato un figlio che potrebbe, in seguito, diventare un artista. Non posso rivendicare per me l'intero merito. Ho avuto un ruolo nel plasmare e influenzare il suo sviluppo, ma è qualcosa di distinto da me. Ora, abbiamo un collettivo che vota, non più un singolo individuo. Trovo affascinante risolvere questa questione o creare qualcosa di nuovo che possa essere valutato retrospettivamente per comprenderne la natura. Ma la questione della paternità è interessante. Solitamente è associata al momento in cui qualcuno rivendica la creazione di qualcosa per ottenerne il riconoscimento. È ovviamente un tema importante perché come esseri umani tendiamo ad associare la creazione a un individuo. Ma guardando a "Botto" nel suo complesso, vedo questo progetto come un'area di possibilità senza confini chiaramente definiti.

Quindi, in sostanza, c'è questo vasto spazio latente di possibilità, dove il 99% è semplicemente insignificante e privo di valore, e solo l'1% di ciò che emerge è davvero significativo. La maggior parte di ciò che si trova in questo spazio è banale e poco rilevante. Quello che distingue un bravo autore o artista è la capacità di ritagliare qualcosa da questo spazio così ristretto e poi rivendicarlo come proprio. È un po' come una scoperta: mentre si lavora con i modelli, si realizza che teoricamente qualcun altro avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato. Ma il vero lavoro è quello di difendere questo spazio, di far valere la propria presenza, dimostrando di essere stati i primi a esplorarlo o comunque a rivendicarlo. Quindi, in definitiva, il duro lavoro di un autore o un artista consiste nel rendere chiaro che qualcosa gli appartiene. È un po' come colonizzare lo spazio delle possibilità: tracciare un confine e affermare che ora quel territorio è di tua proprietà. In realtà, non stiamo inventando nulla di nuovo, ma semplicemente scoprendo ciò che esiste già. L'arte, in questo senso, è riconoscere ciò che scopriamo come qualcosa di degno di essere condiviso. 


Prima di salutarci un'ultima domanda su questa dimensione collettiva o sociale a cui anche si riferiva parlando della community che partecipa al progetto “Botto”. Pensi che l'intelligenza artificiale, con la sua vasta capacità di elaborare e condividere informazioni, stia in qualche modo contribuendo all'espansione della coscienza, sia a livello individuale che collettivo, andando oltre ciò che un singolo individuo potrebbe raggiungere da solo?


Le moderne intelligenze artificiali, soprattutto le più avanzate, hanno praticamente accesso a tutta la conoscenza mondiale disponibile su internet. Questo significa che stanno imparando non solo dati tangibili, ma anche simboli – consci e subconsci –, che fluttuano nei vari media online. Ogni individuo assorbe solo una piccola porzione di ciò che legge, guarda o ascolta nel corso della vita, e queste esperienze plasmano la nostra comprensione del mondo. Al contrario, le moderne IA sembrano possedere una sorta di conoscenza universale e approfondita. Credo che queste macchine non abbiano solo una comprensione superficiale, ma siano in grado di cogliere le stesse associazioni che risvegliano in noi. È come se avessimo a disposizione uno strumento che ci permette di esplorare queste possibilità in modo più efficace di quanto fossimo abituati in passato. Se, per esempio, sento parlare di un nuovo libro, devo prima comprarlo, leggerlo da cima a fondo e solo alla fine alcuni concetti nuovi, sottolineati nel libro, iniziano a modellare il mio pensiero. Quindi, in termini di arricchimento personale, il vecchio modo di apprendere attraverso libri e film è piuttosto inefficiente: quanti libri o film possiamo guardare nella vita che ci saranno davvero di aiuto? Ora abbiamo a disposizione macchine a cui devo solo porre le domande giuste o semplicemente lasciarmi guidare dal caso per arrivare a intuizioni simili. E c'è anche la speranza che, combinando diverse idee, si possa arrivare a nuove scoperte, portando nel mondo concetti e simboli completamente nuovi. La tecnologia ci offre la possibilità di fare queste scoperte, ma dobbiamo fare le domande giuste e saper sfruttare al meglio le nostre possibilità. È un viaggio verso l'ignoto, ma c'è il rischio che queste risorse, ora accessibili a tutti, non siano completamente liberi. Il mio ideale sarebbe un modello senza limiti né censure, ma purtroppo i modelli attuali sembrano essere già castrati o concentrati principalmente negli Stati Uniti. Anche se teoricamente disponiamo di strumenti potentissimi, non ci sono messi a disposizione. È come se stessero costruendo un'autostrada su cui potremmo viaggiare velocemente, ma hanno dimenticato di prevedere le uscite. È difficile sfuggire a questa tendenza, e questo contribuisce a rendere tutto mediocre e spesso banale. Le opzioni ci sono, ma non sono facili da raggiungere. Il problema è che siamo pigri. Siamo sempre più avvolti nel nostro comfort, e questo è un problema. Oggi, se devo scrivere un noioso testo descrittivo per un discorso, so che posso semplicemente andare su Chat GPT, inserire alcune parole chiave e il testo è pronto in 5 minuti. Ma allora faccio una sorta di calcolo costi-benefici e mi chiedo: perché dovrei impegnarmi per due ore a scervellarmi su qualcosa? Il rischio è che ci abituiamo sempre di più ad accontentarci e solo pochi saranno in grado di uscire da questa mentalità. Si spera che coloro che lo faranno saranno ricompensati, perché al giorno d’oggi lo sforzo non viene adeguatamente riconosciuto. Questa discrepanza è evidente quando confrontiamo il lavoro appassionato su un'opera d'arte che richiede anni di impegno con la creazione di qualcosa in pochi minuti.

Non sempre lo sforzo dedicato si traduce in un successo proporzionale in termini di ricompensa o anche di visibilità sui social media. E allora ti chiedi perché continuare a fare questo sforzo. La speranza è che la nostra consapevolezza su questi temi cresca, che torneremo ad apprezzare l'impegno e il duro lavoro. E sapremo anche premiarlo.





*EDA ÖZBAKAY

È una traduttrice e docente turco-tedesca. Intraprende studi in musicologia negli anni di formazione in Germania, si laurea a Roma in Lingua e Letteratura Inglese e Spagnola. Per Del Vecchio Editore ha tradotto opere di Çiler Ilhan e Burhan Sönmez. Scrive di musica. Autrice per pièdimosca edizioni. Redattrice di zetaesse.


*DIEGO FERRANTE

Scrive di filosofia, arti visive e scienze umane. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di teoria politica, collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli.

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