di ANNA CICOGNA
Da sola, la testa ti mostra nell’atto prodigioso di digerire ciò che solo i secoli digeriscono: le gigantesche, massicce statue del dolore, indissolubili al punto da crivellare le interiora di una balena e dissanguarla fino al pallore nel salso mare.
Digerire ciò che solo i secoli digeriscono; la testa, presa nell'atto prodigioso di assimilazione e scarto. La poesia condensa e illumina la parola del quotidiano: digerire un rifiuto, un tradimento, una notizia, un periodo difficile; attraverso la metafora gastroenterica gli eventi, gli incontri, le persone e le cose si inseriscono in un'altra rete di significanti. Il corpo, nella sua dimensione attiva di tubo digerente, entra nel linguaggio con la precisione dell'inconscio che, scriveva Lacan, «dice il vero sul vero». La scansione fisiologica, il trattenere temporaneamente il cibo prima di eliminarlo in forma elaborata, si traduce simbolicamente nel fare qualcosa di ciò che si introduce in me, e produrre un resto. Se il linguaggio, il grande Altro del linguaggio, è ciò che ci accomuna tutti come parlanti, ciò che non riusciamo a digerire, lo scarto, è quanto resiste di più singolare.
«Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento» scrive Canetti in Massa e Potere, nulla appartiene al soggetto più di ciò che non può mettere in parola, che non può simbolizzare, che resta come scarto.
Il rifiuto, dunque ciò che vorremmo maggiormente allontanare al di fuori di noi, ricade immancabilmente all'interno, come su un nastro di Moebius, dove le due superfici della striscia risultano l’una in continuità con l’altra.
Il passaggio (immaginiamoci di poterlo percorrere come le formiche di Escher) si rende possibile in uno “scavalcamento” o piegatura, in un bordo che non è frontiera ma soglia paradossale che non permette una distinzione netta tra la superficie interna e quella esterna, tra il fuori e il dentro. L'impossibilità di tracciare un confine si sfuma nel litorale mobile tra ciò che riconosco come dentro e ciò che è rigettato al di fuori, tra quell'interno che da me fuoriesce e che, fuori, si materializza nello scarto. Ciò che c'è di più mio è all'esterno di me, lo scarto è «concentrata raccolta di indizi» su di me, espulsi fuori di me, è il fuori del mio dentro.
Il metabolismo, la digestione corporea, il transito del cibo che percorre il corpo dissolvendosi, sparendo come entità autonoma e assimilandosi al corpo digerente, «rivela il fondamentale, ma anche il più nascosto, meccanismo del potere». L'escremento che rimane, viene prodotto in appositi locali, isolandosi, in segreto; è qualcosa di cui ci si vergogna perché testimonia, nella sua contingenza informe, di ciò che abbiamo ucciso. Vergogna totalmente umana, umana perché è umano metaforizzare la distruzione e la repulsione, rese simbolicamente – linguisticamente – colpa. Vergogna perché lo smascheramento barra il potere; basti pensare al consiglio popolare di immaginare i potenti a braghe calate, sulla tazza, per smettere di averne timore.
Allo stesso modo il metabolismo sociale produce una gerarchia tra chi digerisce e chi viene rifiutato, isolato e rimosso dal meccanismo del potere. Rifiutato e poi isolato e rimosso proprio in quanto prova vivente della capacità e della colpa di assimilazione, sfruttamento e distruzione dei soggetti: «corpo estraneo». Corpi estranei che sono stati masticati, utilizzati ed espulsi dal corpo sociale per fondare, per differenza, la sua stessa identità. All'accrescimento del bisogno di strutturazione identitaria, corrisponde un uguale e contrario accrescimento della massa digerita, di ciò che è sfruttato e poi rifiutato, scartato, espulso. Massa di rifiuti che, fantasmaticamente, ritornano come punctum perturbante, estimo.1
LE AMERICHE SUL PIATTO
La digestione si fa modello organico anticipato della cultura
Se un uccello dipingesse, non lo farebbe forse lasciando cadere le sue piume? Un serpente le sue squame, un albero sfrondandosi e lasciando cadere le sue foglie?
Il colonialismo portoghese in Brasile può dare un modello preciso di questo movimento metabolico di sfruttamento e scarto sociale, in cui gli indigeni, i cannibali Tupi, gli schiavi neri, il corpo femminile vengono usati e poi rifiutati dalle «viscere del potere che si nutrono e rigenerano non uccidendo, ma riducendo l’altro a schiavo cui si dà da mangiare». L'opera d'arte può permetterci l'incontro con questo resto, con questo pezzo rifiutato, con questo brandello indicibile e, per questo, lasciato cadere. L'opera d'arte riesce a far emergere l'irruzione traumatica del Reale rivelando che «là, nel mondo vi era dell'Altro», dando corpo al limite incandescente dell'impossibilità della rappresentazione. Adriana Varejão, artista brasiliana contemporanea, svela la doppia faccia della digestione, quella operata dal dominio della cultura europea colonialista, di contro alla successiva riappropriazione critica auspicata da Oswald de Andreade nel suo Manifesto antropofago.2
Una riappropriazione che si realizza attraverso l'assimilazione e la digestione dell'invasore, un'opera di incorporazione e digestione dell'Altro della tradizione imperialista che ne rivela il volto maligno e la lacerazione. In Carne à moda de Frans Post, Varejão ingerisce la rassicurante familiarità di paesaggi barocchi d'ispirazione coloniale e illumina gli squarci prodotti da un «resto tagliente», da un resto inassimilabile; è il perturbante della carne macellata, putrida, della ferita aperta. I brani lacerati del quadro vengono disposti come fette di torta su piattini di porcellana finemente decorati; al centro, dei vuoti non rimarginabili.
Sulla tela, al centro compaiono resti, eccedenze che si definiscono per differenza, per resistenza; resti che emergono «facendo macchia nella rappresentazione».
Cosa vuol dire fare macchia nella rappresentazione? La macchia buca, scardina la cornice meramente rappresentativa e semantica dell'opera, fa cadere la maschera sociale, del sapere, del potere e dei sembianti. Questa decostruzione non è però a senso unico, permette un movimento di ritorno, rivela una ricomposizione in cui viene reso visibile ciò che non può essere visto; i pezzi di carne si rivelano improvvisamente altro da ciò che ci si aspettava: emergono i contorni geografici delle Americhe, la mappatura della conquista e dello sradicamento.
Mappatura immaginaria che si ripropone in Mapa de Lopo Homen II; l'artista copia una mappa del cartografo portoghese in cui questi, nel 1519, rappresenta un lembo di terra ipotetico, che unisce le Americhe e l'Asia, terra inventata di cui fa parte anche il Brasile.
Varejão, in questa cartografia viscerale ferisce la mappa in due punti, uno centrale e l'altro dove vengono a toccarsi Asia ed America, alla sinistra del quadro. Al centro, al posto del primo meridiano il taglio, la ferita che insanguina l'Africa, chiudendosi, parzialmente suturata in Europa. In mare, resta la traccia del sangue degli schiavi che vi si dispersero. Il quadro, nello spessore materico delle ferite, rompe la familiarità della rappresentazione, capovolgendo la percezione canonica: la sporgenza, l'eccedenza del sangue rappreso invade lo spazio di chi guarda, in una torsione che annienta l'ottica geometrale.
«Perché i pianeti non parlano?» si chiede Lacan in una delle ultime lezioni del Seminario II, non parlano «perché non hanno la bocca» gli risponde un amico filosofo; perché non hanno tagli, fessure, ferite. La Terra Incognita di Varejão ci parla, attraverso le lacerazioni che l'artista impone alla tela, dell'interno osceno della rappresentazione purificata del colonialismo, della profanazione della carne che rivela la coincidenza ultima con il rifiuto. «C’è qui un’orribile scoperta, quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente, informe, in quanto la sua forma è per se stessa qualcosa che provoca l’angoscia».3
Visione d'angoscia della carne sofferente che fuoriesce dalla tela di Filho Bastardo. Le connessioni iconografiche del quadro si legano all'opera di Jean-Baptist Debret, pittore francese che, arrivato in Brasile nel 1816, compila una monumentale raccolta di illustrazioni sulla vita quotidiana di coloni, schiavi ed indigeni intitolata Voyage Pittoresque et Historique au Brésil. Varejão, in un movimento antropofagico incorpora le linee rigide, il colore piatto, il gesto di Debret, per mettere in scena la sottomissione estrema del corpo femminile, i corpi di donna violati dal potere imperialista. Una schiava, con al collo la gargalheira, strumento di tortura, viene stuprata da un prete mentre al lato opposto della tela due soldati, rappresentanti dello Stato, stanno per punire una giovane indigena legata a un albero. Entrambe sono sottoposte al rispettivo paradigma del potere, quello religioso e quello militare; potere della violenza che darà come risultato – prevedibile e taciuto – il titolo stesso dell'opera: un Filho Bastardo. Al centro, un taglio che dice dell'irrappresentabile, un’irruzione che sovverte le coordinate del quadro, ferita aperta che piega la carne all'orrore della violenza dello stupro e invade lo sguardo, scarto perturbante che fuoriesce dalla cornice della modernità occidentale.
Varejão non imita i quadri; l'imitazione concerne il copiare, meccanicamente, l’atto di un altro senza che questo tocchi il soggetto che lo compie. Varejão si appropria dei quadri dell'invasore, li frammenta, li ingurgita, li digerisce e li rigurgita. Appropriandosi dello stile e delle immagini dei colonizzatori, e trasportandoli in un’altra scena, l'artista brasiliana contesta la storiografia ufficiale, costruendone una versione alternativa, un altro discorso, svuotato dai cliché della tradizione e volto ad incidere sulla memoria collettiva della schiavitù, del cannibalismo, dell'evangelizzazione e della mescolanza culturale e razziale del Brasile. Varejão, dicendo dell'ibridazione, del meticciato, dello scarto della Storia, dell'oscillazione tra digerente e digerito, testimonia di quella possibilità che Canetti ha nominato metamorfosi. Metamorfosi che è accogliere la molteplicità e nominarla, vertiginosa resistenza che «può rendere conto della vita», metabolismo storico, perturbazione dello spazio rappresentativo che consente di accedere a nuovi punti di vista, esterni a quelli della narrazione coloniale. Strategia antropofaga che, metamorficamente, permette di essere l’altro restando sé stessi, assimilando la cultura dell'oppressore e permettendoci, spettatori turbati e chiamati in causa, di assistere alla digestione di «ciò che solo i secoli digeriscono».
EPIGRAFE
Visione di angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo – Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe.
1. «Non sono io che vado in cerca di lui (il punctum), ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge». R.Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 28.
2. Oswald de Andreade, nel 1928 scrive il Manifesto antropofago, metafora organica ispirata alla tribù indigena dei Tupi (Tupy or not Tupy, tuona amleticamente l'autore), che divoravano i loro nemici coraggiosi; metafora di tutto ciò che doveva essere ripudiato, assimilato e superato per raggiungere l'autonomia intellettuale dalle imposizioni europee. Il Manifesto rappresenta inoltre una diagnosi della struttura sociale brasiliana traumatizzata dal colonialismo, e un ipotesi terapeutica volta a rinnovare meccanismi sociali, intellettuali e politici radicati nel trauma della catechesi imposta dai gesuiti e dell'imperialismo. Pubblicato su Revista de Antropofagia, Anno, I, n° 1, nel maggio del 1928, il testo è consultabile sul sito della rivista Saragana: http://www.sagarana.it/rivista/numero17/saggio4.html
3. Il passo citato fa riferimento ad un sogno analizzato da Freud in cui questi si ritrova a guardare in fondo alla bocca.
*ANNA CICOGNA
Psicologa, specializzanda presso l'istituto IRPA di Milano, si interessa di psicanalisi e letteratura. Vive e lavora nella scontrosa grazia di Trieste.
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