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Odisseo, la fame, il mare

di DANIELA DE LISO



"E lui bevve e mangiò, Odisseo costante, glorioso,

avidamente: da molto tempo era digiuno di cibo"

[Libro IV dell'Odissea]

Ci si arriva percorrendo una lunga strada sterrata. C’è una chiesetta bianca. In cima sventola, orgogliosa come la terra, la bandiera greca. Ti fermi un attimo a riposare sul muretto bianco dipinto d’azzurro. Davanti, una casa bassa con finestre azzurro mare. A destra, il mare. Tanto mare. Tutto mare. Ponte. Non confine. Prosegui per la strada sterrata che gira, curva, si rimette dritta e sale ripida e ripida scende. Sono trascorsi forse dieci minuti ma tu hai l’impressione di camminare in un tempo fermo. Poi il tempo, in fondo, vale in città. È convenzione in una vita di convenzioni avvolte in trame troppo fitte. Arrivi. Un’altra chiesa in riva al mare. Ancora bianco accecante e accecato dal sole. Ancora azzurro a schiaffeggiarlo come una carezza riuscita a metà. Non c’è nessuno. Ancora. Che ora è. Neanche lo sai più. E non t’importa. Sensazione che avevi dimenticato. Oltre la chiesa, appena dietro una svolta nascosta dalla sterpaglia, c’è una piattaforma sull’acqua. Non è una palafitta. Non ci guardi il mare sotto. Il mare è intorno. Una sottile striscia di terra la salva dall’essere un’isola bianca ferma sull’acqua. Accanto, sulla terraferma, la vedi solo dopo, c’è una vecchia rimessa di barche. Ci cucina una donna, che ha appena pulito in mare il pescato del giorno. Il pesce lo ha preso suo figlio. È un uomo nero di sole, tutto nervi tesi e muscoli che non sanno palestra. È mezzo svestito che fuma su un sasso mentre non fissa il mare se non con lo sguardo. Non sta neanche pensando. Secondo te è pure stanco di pensieri. Ha trent’anni che somigliano a quaranta e in paese ha una moglie già grassa con figli chiassosi. L’ha sposata con una festa chiassosa. Hanno ballato tutta la notte. Anche il sirtaki, perché lei aveva invitato parenti americani che sono fissati con la storia di Zorbas il greco. Lui il sirtaki non lo sapeva ballare. Anzi non sapeva ballare per niente e aveva dovuto imparare, perché una volta era stato innamorato della donna grassa. Ora lei sta in paese. Vivono nel mulino della famiglia di lei, che sta sulla cima più alta dell’isola. D'inverno ci sta anche lui e fa il meccanico in paese. D’estate, invece, si toglie i vestiti e torna da sua madre, la vecchia. Torna dov’è nato, nudo, nella rimessa di barche. Ma non è più bambino. E sua madre non tiene più la capra che fa il latte per lui soltanto.

Zetaesse, Daniela De Liso, Odisseo, la fame, il mare: Ti fermi un attimo a riposare sul muretto bianco dipinto d’azzurro. Davanti, una casa bassa con finestre azzurro mare. A destra, il mare. Tanto mare. Tutto mare.
© Peppe Tortora per zetaesse

Ora sua madre, la vecchia, cucina per i turisti d’estate. La piattaforma l’ha costruita suo padre, che era pescatore. Un giorno aveva detto alla madre, che ora è la vecchia: io qui ci farei una zattera, di cemento, però. Una penisola, collegata alla terra. Arrivano i turisti, lo so – sono stato a Milano – ai turisti piacerà una stronzata così. E ai turisti era piaciuta. Non a tutti però. Non ci avevano fatto i soldi. Perché quel posto lì piaceva solo a quelli speciali, quelli con la tristezza dentro e la gioia fuori. Sua madre lo diceva a suo padre: tutti, sull'isola, hanno fatto i soldi, solo noi no, per questa tua stronzata romantica. Poi il padre era morto e la madre, la vecchia, non aveva smesso di cucinare per quelli speciali. E lui aveva preso la barca di suo padre, leggera e pesante sul mare blu, ed era andato a pescare. D’estate lasciava la moglie grassa e i figli e pescava i sogni di suo padre, che quelli speciali mangiavano su una piattaforma di cemento sospesa sull’acqua. I soldi non li aveva fatti neanche lui. Ma aveva una casa, una moglie grassa e dei figli ragazzi. E va bene così, ché lui non lo sa che la vita può essere altro. E così non ha ansie e desideri nascosti e insoddisfatte voglie che non conoscono tregua. Quattro tavoli di legno bruciato dal sole e sedie sorelle. Le tovaglie sono a quadretti lisi e il vento vuol portarsele via. Con un cenno della testa tu chiedi. Con un cenno la vecchia risponde. Ti siedi. Il tavolo è sull’acqua. Si è alzato il melthemi, ancora bambino. Domani la finta isola sarà sommersa. Verranno a cercarla, ma il mare l’avrà mangiata. La vecchia fa un cenno. Qualche metro più in là, sulla terraferma, indica i polpi stesi al sole sulla roccia bianca. Tu dici va bene senza parlare. Te ne stai seduta fuori tempo. Il silenzio lotta col rumore leggero del mare e col vento bambino. Nessuna voce umana. La vecchia, il figlio, tu. Non avete parole. Non vi servono, credo. Tu stavi fuggendo del resto. E non volevi parole. Perciò sei venuta qua. Hai trovato il silenzio. E non fa più rumore. E neanche paura. Adesso lo mangi quel polpo steso al sole. Hanno acceso un fuoco la vecchia e suo figlio. Hanno messo su una specie di spiedo. E tu lo hai pensato nell’acqua quel polpo. Lo hai pensato che nuota e attraversa le pieghe del mare, cercando gli scogli, e si mimetizza perché nessuno gli tolga il respiro. È tutta una lotta, la vita. E la carne di questo polpo grigliato è callosa, la devi masticare a lungo per sentire quant’è buona, per sentirci il mare. Tu il tempo ce l’hai. Ci stai dentro, al tempo, adesso. Poi c’è questo vino bianco che ti toglie la sete. Perché non sa di frutta e neanche di terra. Sa di uva colta prima che fosse matura, ancora aspra ad arrampicarsi sulla vite bassa di colline uguali. Non ti ricordi neanche che cosa sei venuta a cercare. Forse l’hai trovato. O forse sei solo stanca e ti sei fermata un momento a ricordarti che sei partita in un giorno che non sapresti più dire – di certo c’era la luna alta e provocante nel cielo –, per un viaggio che non conosce porto (lo avvista dall’albero più alto del ponte, lo sente che trema nell’aria, che chiama, quasi un sussurro). Sei partita per non arrivare in nessun dove, ma lo sapevi già. Mangi e poi bevi e stai zitta e ascolti e poi sarai di nuovo sulla strada sterrata a percorrere salite e discese fino alla chiesa che è chiusa e ti lascerà fuori, ancora una volta, come un supplice che non trova altare.





*DANIELA DE LISO

Vorrebbe insegnare Letteratura dei mondi possibili, ma le hanno spiegato che non si può. Così sembra che si sia rassegnata alla Letteratura italiana, ma si dichiara incapace di restare dentro i confini e si batte per l'abrogazione della parola in questione che amerebbe sostituire con la locuzione «limiti da valicare». Vive tra una città e l'altra e, se non doveste trovarla, provate a cercare da un'altra parte, perché da qualche parte lei sta aspettando voi, come scriveva il vecchio Walt.

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