a cura di ALESSIA CAPASSO
Per Navarra Editore è appena uscito il primo libro fotografico di Nerina Toci L’immagine è l’unico ricordo che ho. Gli scatti della giovane fotografa siciliana, di origini albanesi, svelano un universo onirico, in cui convivono nudità, inquietudine e ironia. Tra entusiasmo, reticenza e qualche agognata sigaretta, Zetaesse è riuscita a intervistare quella che Letizia Battaglia considera uno dei nuovi talenti della fotografia italiana.
In interviste precedenti affermi di non essere una fotografa. Come mai?
La macchina fotografica per me è un mezzo espressivo. Non mi definisco né una fotografa né un'artista, mi piacerebbe che fossero gli altri a dare una definizione di me. E vivere di fotografia è molto difficile.
Come ti sei avvicinata alla fotografia?
A un certo punto ho avvertito il bisogno di esprimermi. Avrei potuto farlo attraverso la poesia o il cinema, ma mi è sembrata più intima la macchina fotografica. Mi permette mi permette di raccontare l’inconscio, i ricordi, l’elaborazione dei sogni. Per me la fotografia è un racconto che nasce da un ricordo.
Come arrivi dal sogno allo scatto?
In alcuni momenti prendo degli appunti immediatamente, come se volessi raccontare una fiaba. In altri c’è molto istinto.
Chi e cosa ha nutrito il tuo percorso fotografico?
Quando ho cominciato a fotografare, non volevo avere sovrastrutture. l’unico fotografo che conoscevo in modo dettagliato era Mario Giacomelli, oltre il suo lavoro mi incuriosiva anche la sua vita personale. I miei maestri sono stati altri. Il mio mondo era fatto di poesia, di cinema e di pittura. Mi sento molto più ispirata dalla pittura. Uno dei pittori miei preferiti, ad esempio, è Balthus. Lo trovo meraviglioso.
Tu lavori molto con l'autoritratto. In questi anni rivolgere l'obiettivo verso se stessi, come nei selfie, è diventato un atto quotidiano, quasi dovuto. Cosa provi nel puntare l'obiettivo verso te stessa? Non temi di cadere in un narcisismo diffuso che ci circonda?
Vivo l'autoritratto in modo molto naturale. Non provo imbarazzo, ma escludo ci sia una forma di narcisismo. In ogni caso, non è stato facile. Lo sarebbe stato se non mi fossi soffermata a parlare di irrequietezza o dolore. Quello che mi interessa evidenziare è l’aspetto psicologico, su me stessa o sulle altre persone che compaiono nei miei scatti. Se sono lì è perché hanno sempre una particolarità, che mi affascina.
Il tuo lavoro ad un primo sguardo ricorda quello di Francesca Woodman. Personalmente, lo avevo interpretato come un omaggio. È così?
Non posso dire di essermi ispirata alla Woodman perché non la conoscevo, me ne parlò un amico fotografo quando avevo già realizzato buona parte dei miei autoritratti. Quando ne vidi gli scatti, rimasi sbalordita. Fu una sensazione strana. E allora ho cercato di capire cos’era questa cosa che condividevamo. Guardando i suoi lavori ho compreso che l’unica cosa che ci accomuna è un sentire comune.
Eppure un elemento ricorrente sia nelle tue immagini che in quelle della Woodman è l'inquietudine? Da dove proviene?
Inquietudine, ripetiamolo insieme… inquietudine, come ti senti adesso? L’inquietudine sta nella stessa vibrazione della voce nel momento in cui l’hai pronunciata. Non posso dire altro.
In cosa ritieni differisca il tuo lavoro da quello della Woodman?
Innanzitutto, da due anni ho cambiato modo di esprimermi. Faccio molti meno autoritratti. Nel caso della Woodman parliamo di una persona che si è suicidata. Le sue immagini sono intrise di dolore. Nelle mie foto invece, oltre all’inquietudine, c’è anche ironia. Inoltre ho affrontato il fiabesco, che mi affascina moltissimo.
Ti senti più a tuo agio nel fiabesco?
È la dimensione che cercavo e mi interessa di più adesso. Sono sempre alla ricerca di nuovi mondi da esplorare. Anche se sono irrequieta, e nella vita ho deciso di parlare del dolore, dell’inquietudine, c’è anche molto altro di cui desidero parlare. E nel fiabesco riesco ad esprimerlo meglio.
Mi hai parlato di una forte ispirazione che viene dalla poesia. A quali autori in particolare ti riferisci?
Sicuramente, Amelia Rosselli ha influito radicalmente sul mio pensiero. Poi anche Rilke, Antonia Pozzi. Ce ne sono tanti. Per me la cosa più importante era la parola. Credevo in tutto quello che mi veniva detto, poi improvvisamente decisi di comunicare attraverso l’immagine, perché non riuscivo più a credere in qualcosa. Adesso gestisco una rubrica su NiedernGasse, che consiste nell’accostamento fra i miei scatti e le poesie di autori contemporanei come Franco Buffoni, Gino Scartaghiande, Marco Giovenale.
Tu sei cresciuta in Sicilia. Le peculiarità dell'isola hanno influito sui tuoi scatti?
La Sicilia è incantevole. E mi ha aiutata nella creazione di certi ambienti, di alcune atmosfere, anche per via di questa decadenza che si alterna agli eccessi del barocco. E poi mi ricorda talvolta l'Albania.
È da lì che viene la tua famiglia. Cosa ricordi del passaggio in Italia?
A 9 anni. Forse 8. In verità cercano sempre di capire cosa ho vissuto in Albania, ma non mi piace parlare della mia vita privata. Non è il momento.
Proprio in Sicilia hai trovato una madrina d'eccezione: Letizia Battaglia, che ha anche scritto la prefazione del tuo libro. Com’è nato il vostro rapporto?
Volevo conoscerla e ho fatto l’impossibile per riuscirci. Le ho fatto vedere il mio lavoro e lei si è dimostrata subito molto disponibile e cordiale. A un certo punto iniziai a mandarle ogni settimana due foto. Mi consigliava costantemente. Letizia è immensa. Quando parlo di lei mi emoziono, perché ha una profondità che non può essere descritta. Come in fotografia, ci sono rapporti che non riesci a decifrare.
Oltre a promuovere il libro, cosa hai in programma per il futuro prossimo?
Al momento sono ferma perché non trovo un'ispirazione che mi convinca. Sono alla ricerca di nuovi soggetti da poter fotografare. Ho smesso da tempo di fare autoritratti. Quello che mi interessa quando fotografo è instaurare un rapporto di empatia con l’altra persona, le dinamiche tra due persone che si riconoscono.
La tua fotografia è piena di assenze, di anime che sfuggono e di luoghi sospesi nel tempo. A cosa ti fa pensare la parola sparire?
Sparire. È bella questa parola. Ed è molto ricorrente nella mia vita. Mi viene in mente subito Anaïs Nin, che credeva nell’ebbrezza, nell’estasi. Quando la vita la incatenava, in un modo o nell’altro scappava. In ognuno di noi, credo ci sia questa voglia di fuggire, anche da se stessi principalmente.
Mi fai compagnia mentre compro le sigarette?
*ALESSIA CAPASSO
Ha contribuito a fondare zetaesse. Era destinata alle arringhe in tribunale, ma si è inventata fotografa. Concepita a Lampedusa, partenopea di nascita, la scambiano per fiamminga per le strade di Bruxelles, dove attualmente vive e lavora.
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