di ANDREA AMOROSO
Come la parola sacra, la scrittura proviene dall’ignoto,
è senza autore, senza origine, e quindi rinvia a qualcosa di più originale.
Dietro alla parola dello scritto nessuno è presente ma quella parola dà voce [all’assenza.
Maurice Blanchot, La bestia di Lascaux
Le donne dei quartieri popolari e quelle dei paesini del Sud sostano, ma forse è più giusto dire stanno davanti alla porta di casa; non riflettono, non riposano, non osservano, magari fanno tutto questo, ma lateralmente, come digerendo qualcosa. La digestione: quel movimento attivo-passivo che fa ed è fatto, che scrive ed è scritto, che legge ed è letto. La digestione è un testo che si scrive mentre loro – le donne – stanno. La digestione è questo testo scritto all’interno del mentre (no, non è un refuso) di una donna del Sud.
Uno stare che è prima di tutto un verbo heideggeriano. Essenzialmente. Ed è anche ciò avvicina questi esseri agli anacoreti, agli stiliti, ai mistici. Trattengono qualcosa dell’essere, ma non tutto l’essere; sanno senza saperlo che l’essere si declina solo in quanto mancanza, ed è per questo che l’unica teologia che potrebbe appartenere loro sarebbe senz’altro una teologia negativa.
Je puis, non ce qu’il est, mais ce qu’il n’est, escrire – scriveva Claude Hopil, poeta mistico vissuto cinque secoli fa.
Le donne davanti alla porta sono le donne che stanno e che non potrebbero non stare; prendono di Dio quello che passa davanti alla loro porta, un’impresenza, un’eco, un nonquesto e un nonquello intraducibile.
Le donne che stanno si alimentano di un sacro che viene dal centro della terra, attraversa il mattonellato di second’ordine dei sobborghi, sale per le gambe delle sedie di legno mezze smangiucchiate e si posiziona in un posto misterioso di un corpo che non tende a salire e non tende a scendere, ma sta. Come un Sante Gaiardoni in splendida souplesse ciclistica.
E non c’è bisogno di richiamare Derrida per accorgersi che gli etimi sono al contempo finzioni e iscrizioni vive, tracce mnestiche sempre da ricollocare: donne che stanno (istasi, dal verbo isthmi in greco antico), nelle loro sedute stanno: seduta stante. E nel loro stare vivificano un attimo che è sempre già venuto e sempre di là da venire, mai presente. Presenza assente, per dirla blanchottando quanto basta.
Il loro nutrimento naturale è un’attesa impossibile, che non attende, che dis-attende il momento stesso dell’avvenimento. Perché niente s’incontra, se non quel che non c’è, il mancato. L’immancabile mancato, un mancamento, quasi uno svenir su seggiola. Istasi, stanno, in questo ist-ante che è quindi davanti (ante) ma mai afferrabile. Uno smash mancato, il punto finale che non potrà mai essere segnato di una partita a tennis fra Bernini e Meister Eckhart.
Se nell’exstasis avviene l’illuminazione che porta fuori di sé, nell’instasis ciò che avviene è l’immediato instillarsi dell’instante, quindi avviene ciò che non potendo essere contenuto non può uscire da alcunché.
Ciò che è fuori da sempre non va e non viene, si instilla nell’attimo del suo scomparire. È il movimento disarticolato eppure fermo della corsa di Garrincha, il “Federer moment” di cui parla Foster Wallace, l’atterraggio necessario di una Nadia Comăneci, che per un attimo si inabissa nel fondo dell’aria e poi torna sul suolo. «Dio lo si deve cogliere come modo senza modo, come essere senza essere, perché egli non ha modo» – scrive Angelus Silesius. Rimanere, restare… ciò che rimane e che resta quando tutto è andato, passato, vissuto. Dejà vu dell’estetico, dejà lu della letteratura, dejà pensé dell’intelletto: questo è il dono della contadina di Cropalati sulla sua sedia impagliata, un dono che non chiede di essere donato, un dono che non si sa.
*ANDREA AMOROSO
Si occupa di letteratura italiana del Novecento, ma non solo. È uno dei sei fondatori di zetaesse. È una persona qualunque.
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