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La macchina fagocitante di Henri Chopin

di DOMENICO NAPOLITANO

When I put the microphone into the mouth I have simultaneously five sounds:

the air and the liquid in the mouth, the respiration in the nose, the air between each tooth and the respiration in the lungs … In 1974 I put into my stomach a very small microphone and it was a discovery – the body is always like a factory!

It never stops – there’s no silence!

Henri Chopin, intervista non pubblicata, ABC Television, Sidney 1992

Nel 1974 il poeta sonoro Henri Chopin ingoia una piccola sonda e registra i suoni del suo stomaco, realizzando La Digestion, l’esito più radicale a cui sia giunta la “poesia sonora”.

In quest’opera si concretizza, con un’evidenza e una potenza espressiva inequivocabili, tutta la ricerca artistica di un movimento che nasce negli anni ’60, ma che si radica nelle precedenti sperimentazioni del futurismo, del dadaismo e del lettrismo, nel lavoro di Artaud, e che a nostro avviso, proprio con La Digestion afferma il superamento di tutte quelle esperienze.

Cerchiamo, dunque, di analizzare i punti chiave che hanno determinato lo sviluppo della “poesia sonora” in opposizione alla poesia letteraria e le conseguenze che un’opera come La Digestion ha avuto per lo sviluppo dell’avanguardia musicale e per la considerazione, oggi, dell’esperienza sonora in quanto tale.

In primo luogo, la poesia sonora non obbedisce a un’estetica determinata, né descrive un gruppo compatto di artisti, bensì racchiude esperienze multiple, come emerge chiaramente dalla raccolta “manifesto” Poésie sonore internationale curata proprio da Henri Chopin, figura chiave del movimento. Creazione spontanea di parole e suoni, attraverso la loro trasformazione (spesso con l’ausilio di dispositivi elettronici), sovrapposizione, giustapposizione, accelerazione o rallentamento, in maniera talvolta ricorsiva, la poesia sonora non si pone canoni se non quello di partire dalle parole per arrivare al suono.

Ma già questo semplice principio permette di cogliere dei caratteri più specifici: lavorando sul suono delle parole, queste ultime perdono il loro presunto senso per privilegiare l’aspetto fonico, tramite il quale dar vita a parole nuove, nate a caso. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata acusticamente. La barriera tra musica e poesia si allenta, le categorie iniziano a perdere di senso e a infrangersi contro la “corporeità del suono”. Come spiega William S. Burroughs, anch’egli parte del movimento per un certo periodo:

Il confine che separa la musica dalla poesia è del tutto arbitrario e la poesia sonora è esattamente concepita allo scopo di rompere queste categorie, per liberare la poesia dalla pagina stampata, senza, dogmaticamente, rimuovere la comodità della pagina stampata.

Nessuna separazione tra musica e poesia, dunque, accomunate entrambe dall’esperienza del suono, e soprattutto “liberazione dalla pagina stampata”, ovvero emancipazione dalla scrittura: la poesia sonora ha a che fare esclusivamente con la parola orale perché essa è innanzitutto suono, mentre si pone in rapporto critico con la parola scritta perché quest’ultima detiene, in primo luogo grazie alla sua “immaterialità” e ripetibilità, le qualità semantiche, il rimando segnico, che pongono una distanza tra il gesto espressivo presente e il significato da questo separato e astratto.

Zetaesse, Domenico Napolitano, Henri Chopin: Nel 1974 Henri Chopin ingoia una piccola sonda e registra i suoni del suo stomaco, realizzando La Digestion, l’esito più radicale a cui sia giunta la poesia sonora
Una performance sonora di Henri Chopin

Alla fine degli anni ’60 Chopin inizia a definire con maggiore precisione le sue esplorazioni di «poesia sonora fatta per e dal registratore a nastro», come composizioni di «micro-particelle vocali piuttosto che della Parola così come la conosciamo», intendendo con questo che il suo interesse è rivolto alla voce come elemento di trasmissione sonora piuttosto che semantica. E nello scritto del 1967 intitolato Why I am the author of sound poetry and free poetry, Chopin esprime in maniera più radicale la sua posizione nei confronti della parola scritta e della significazione, sostenendo che quest’ultima «significa qualcosa di diverso per ciascuno di noi» e «impone punti di vista multipli che mai aderiscono alla vita di una singola persona e uno accetta a tavolino», arrivando persino ad affermare che «l’onnipotente Parola […] ha permesso alla vita di mentire».

Seguendo un gesto che è già stato di Nietzsche e di Artaud, Henri Chopin rifiuta di assoggettare la Vita alla Parola perché rifiuta di assoggettare la Vita all’Essere. E’ per questo motivo che insiste sullo scarto e l’inaderenza che esiste tra la “significazione” e “la vita di una singola persona”, scarto colmabile solo tramite menzogna o cieca obbedienza. La Parola, specialmente quella scritta, è separata dalla vita perché è universale e indefinitamente ripetibile, perché fa persistere un significato ideale, astratto, al di sotto della singolarità e irripetibilità del momento presente, con cui, invece, la “vitalità della vita” (la “vita corporea”) coincide e che trova nel “gesto sonoro” la sua più autentica espressione. Contrariamente a Platone, Chopin non critica la parola scritta perché ha corpo, bensì, al contrario, proprio perché essa non ne ha; anzi, essa rimuove il “corpo sonoro” della parola orale, la sua parte fisica, il gesto che effettivamente accade nel momento, ovvero la voce, per lasciare di essa soltanto la sua parte immateriale, il suo rimando significante. Il proprio della voce, «la materialità del corpo che sgorga dalla gola, là dove si forgia il metallo fonico», viene continuamente rimosso in favore della traccia scritta, afona e priva di corpo, e pertanto priva di vita. Perché, bisogna precisarlo, per Chopin non c’è vita senza corpo. È per questo che la parola diventa un vero e proprio limite, una coercizione che riduce le possibilità della vita: «L’ho accusata e l’accuso ancora di essere un impedimento alla vita», a cui si può rispondere soltanto invocando un ritorno a una espressività viva, che «non spiega niente, ma trasmette emozioni, suggerisce scambi, comunicazioni affettive».

Se, come dice Derrida, «la scrittura è lo spazio stesso e la possibilità della ripetizione in generale», autori come Artaud e Chopin rivendicano «il gesto vivo che ha luogo una sola volta». Tale gesto, nella sua unicità, nel suo “emergere” nel momento presente e “affermarsi” in quanto tale e non in quanto rimando a un significato ripetibile indefinitamente nel tempo, tale gesto è la Vita che si oppone alla “rappresentazione”, «l’irrappresentabile del presente vivo [che] è occultato o dissolto, eliso o trasferito nella catena infinita delle rappresentazioni». Tale “presente vivo” è il limite abissale del dispendio, il gesto irripetibile, finito, pericolosamente gratuito, contro cui si scontra la logica strumentale della civiltà, sempre votata al culto dell’utile e del controllo, imperniata su un sistema linguistico ed espressivo che, di riflesso, permetta la ripetibilità indefinita ai fini di un più efficace esercizio del potere. È da qui che nasce l’esigenza per la poesia sonora di opporsi al primato della Parola, per ritrovare dietro di essa la vitalità della voce, del corpo, del gesto, la carica anarchica della vita stessa in ciò che essa ha di irrappresentabile e incontrollabile.

La poesia non si fa con la parola, si fa con il corpo, essa non obbedisce al senso, ma alla sensorialità. Da qui l’invocazione di Chopin: «Che la parola non sia più carne: che il respiro vocale sia carne». Essa è fatta di sollecitazioni sensoriali, stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia in profondità collegate dal loro «carattere comune che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d’esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente» [P. Zumthor, I grafemi e i vocemi di Henri Chopin, in «La Taverna di Auerbach», n° 1, 1987 (corsivo nostro)].


Zetaesse, Domenico Napolitano, Henri Chopin: Nel 1974 Henri Chopin ingoia una piccola sonda e registra i suoni del suo stomaco, realizzando La Digestion, l’esito più radicale a cui sia giunta la poesia sonora
Henri Chopin, Artalect 1983

La parola deve divenire corpo, il respiro vocale deve divenire carne; così facendo il corpo stesso parla ma senza voler “significare”, è solo suono e gesto. Con La Digestion la poesia sonora approda a un livello successivo: il suono articolato non ha più alcun privilegio sulle possibilità sonore del corpo intero. La lingua si fonde con la bocca, la laringe si fonde con i polmoni, gli organi iniziano a risuonare, tutto un nuovo universo sonoro si materializza: soffi, salivazioni, deglutizioni, il respiro che si confonde con i suoni gutturali, le labbra tutt’uno con i denti. E lo stomaco, che è, in questo senso, il luogo più estremo di questa esplorazione della parola fattasi corpo, si eleva a tempio maledetto della poesia: il luogo dell’introiezione, la radice della bocca, il fondo oscuro della parola e del respiro.

Ecco, in La Digestion si tratta letteralmente di invertire il processo della fonazione, ingoiare, divorare la parola e con essa il senso, fagocitare i significati e i significanti, salvo poi farli riemergere dal ricettacolo in cui sono finiti, accompagnati adesso da tutti i residui, i rifiuti, i rumori, che lì hanno raccolto. Sono tali residui a costituire il senso, ciò che la parola non è capace di portare, o meglio vuole intenzionalmente rimuovere come un pericolo. Ma è proprio lì che risiede la vita vera, la carica caotica e dunque rivoluzionaria della vita, che in quanto tale è pericolosa per la vita stessa.La poesia è sempre stata intrinsecamente legata alla scrittura, anche laddove gli esperimenti più avanguardisti (dadaismo, futurismo) hanno ricercato sulla “sonorità” della parola, perché anche in quei casi l’orizzonte di riferimento era nient’altro che la parola. Ma dove c’è scrittura non c’è voce e non c’è corpo, non c’è suono, ma solo rappresentazione di esso, notazione. È il registratore a nastro, questo specifico strumento di archiviazione (ma ricco di possibili usi creativi) che, paradossalmente, permette di superare questo empasse concettuale, consentendo alla voce di non essere soltanto traduzione fonica della parola (così come, per secoli, gli strumenti sono stati la traduzione fonica della partitura), ma voce libera, voce che è più corpo che parola, e proprio in quanto corpo è suono, materia sonora non semioticamente formata, non imprigionata nei limiti del senso. Il registratore è il modo per trasformare il corpo in un materiale, che può essere scolpito e modellato. «Con le ricerche elettroniche – scriveva Chopin – la voce è finalmente diventata concreta» [H. Chopin, La voce, in «La Taverna di Auerbach», n° 9/10, 1990].

Il registratore materializza la voce e il corpo, la voce come corpo e il corpo come voce, rendendoli veicoli di un’esperienza sonora unica, in cui, tramite l’amplificazione e specifiche tecniche di microfonazione e composizione, i suoni del corpo diventano i protagonisti dell’opera sonora e il corpo stesso si trasforma in una vera e propria sound factory: i suoni della bocca sono giocati nella saturazione estrema, poi accelerati e rallentati, sovrapposti in un insieme di rumore violento e voce naturale; i suoni degli altri organi, amplificati e “manipolati”, sono composti in un gioco di riconoscibilità e irriconoscibilità in cui cambiano la loro natura, al limite tra clangori industriali e ripetizioni ipnotiche; i respiri diventano sferzate di rumore, i suoni dello stomaco veri e propri ingranaggi che paiono muovere una enorme macchina umana. Al confronto di tale universo sonoro la parola non è che la più sbiadita tra le infinite possibilità della voce, contro le quali si impongono invece le potenze espressive del corpo e delle macchine di amplificazione. Esperienza fisica del suono, suono come corpo, voce come corpo. E d’altro lato, poesia come corpo, realtà biologica in movimento, struttura di particelle elettriche. «Corpo trasformato in spazio udibile», come disse il medievalista, amico di Chopin, Paul Zumthor.

Henri Chopin ha portato avanti un’intuizione che era già di Artaud, ma che quest’ultimo non aveva i mezzi tecnici per realizzare, ed ha, in questo modo, aperto la strada per una trasformazione tanto della musica quanto della poesia. Se Artaud cercava «la Parola di prima delle parole», per Chopin la parola è sempre legata alla logica della rappresentazione, e in quanto tale è un cadavere dell’energia vitale. Ed è proprio attraverso la tecnologica fonica che egli riesce a fare della poesia qualcosa che non è più asservita alla Parola, neanche nella sua espressione estrema di glossolalia o grido primordiale, ma è suono, corpo e vita, viscere e carne. La Digestion ha inaugurato la stagione dell’esperienza sonora in quanto tale, in cui non c’è più differenza tra musica, poesia, rumore. Qualcosa che la sperimentazione elettro-acustica aveva già esplorato un decennio prima, ma che in Chopin assume i caratteri unici del corpo umano come inesauribile “fabbrica sonora”, in cui sono coinvolti tutti gli organi, parole e suoni come ingranaggi organici che ruotano nella macchina umana. Solo con lui i mezzi tecnici si sono trasformati in strumenti per rievocare un’esperienza ancestrale dell’esistenza, qualcosa di basilare e profondo, la visceralità nel suo senso più proprio, che va anche al di là del corpo umano per farci immaginare un enorme organismo collettivo che digerisce e rigurgita suoni in continuazione, le nostre città, le sconfinate foreste, gli abissi marini, tutte le espressioni della Vita. In definitiva, un radicale atto di liberazione.

È per questo che un’arte suggestiva [suggestive] che lascia il corpo, quel risuonatore e quel ricettacolo, animato, respirato e agito, quel + e -, è per questo che un’arte suggestiva è stata fatta; essa deve venire e crescere, e in nessun modo affermare. Che quest’arte ti piaccia o meno non ha nessuna importanza! Essa ti abbraccerà nonostante te stesso, circolerà in te. È questo il suo ruolo. Essa deve aprire i nostri ricettori alle nostre stesse potenzialità biologiche, fisiche e mentali, al di là dell’intelletto; l’arte deve essere pensata come un ortaggio, ci nutre, anche se in modo diverso, e questo è tutto. […] In questo modo la Parola è ridotta al ruolo che le è proprio, subordinata alla vita; essa serve soltanto a proporre usi intelligibili, scambi elementari, ma mai potrà incanalare le mirabili potenze della vita.



*DOMENICO NAPOLITANO

Classe 1985, laureato in “Filosofia, politica e comunicazione” presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, è attivo come musicista e compositore di musica elettro-acustica da oltre dieci anni con il nome d'arte SEC_. Ha suonato concerti in tutta Europa, in USA e nel medio-Oriente. Attivo da altrettanti anni come organizzatore di eventi musicali nelle città di Napoli e Avellino, è considerato uno degli animatori della scena musicale elettronica italiana. Ha pubblicato anche brevi saggi di filosofia della musica, tra cui “Partiture significanti” per la rivista Trimbi. Toxorecords.com/sec_

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