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Le distanze imbrogliano come i tralci uniscono. Distanziamenti sacri e religiosità virtuale

di FABIO MIGLIANO


Zetaesse. Fabio Migliano. La “giusta distanza” non fa coincidere il giusto con la virtù della giustizia, bensì con la concretezza e la scaltrezza dell'appropriato, e che rimanda al giusto del “fa la cosa giusta”


“Sopprimere la lontananza uccide. Non di altro

gli dèi muoiono che dello stare in mezzo a noi”

René Char, trad. V.Sereni



Tra i vari tipi di distanza, ve n'è una che non è stabilita per legge, che potremmo definire “astuta” perché prevede libertà di movimento e di pensiero, strategie personali, e in maniera certamente maggiore coinvolge le capacità di reazione, comprensione del contesto e valutazione degli eventi. È la distanza tipica dei pedinamenti o di chi conduce un'inchiesta, non supportata da indicazioni precise ma continuamente riscritta e ripensata in riferimento al contingente. È la “giusta distanza” che non fa coincidere il giusto con la virtù della giustizia, bensì con la concretezza e la scaltrezza dell'appropriato, e che rimanda al giusto del “fa la cosa giusta”. Il credente in rapporto alla sfera del sacro adotta una distanza simile, che muta via via per molteplici ragioni, e riflette continuamente la possibilità di un accarezzarsi reciproco, abolitivo della presa. Una distanza fondata su un desiderio mai pago e in attesa. Insieme a questa, a essere assunta è parimenti la distanza contemplativa, che implica la giusta distanza unita all'allontanamento spaziale o temporale, ai fini di una più ampia comprensione. È quella espressa dal detto cinese “ai piedi del faro non c'è mai luce”, citato da Bloch nel saggio “Spirito dell'utopia”. A voler dire che chi sta troppo vicino rischia di perdere di vista il generale, e per questo incapace di intrecciare intelligentemente i segni. Come un mosaicista che si accanisce sulle singole pietre senza mai distanziarsene, e analogamente a quanto accade con i sogni mattutini, dei quali non si comprende immediatamente l'ordito, ma che man man, nei giorni a seguire, rivelano la trama.

Il lessico italiano è ricco di parole con la medesima radice verbale di distanza, che è “stare”. Tra queste costanza e sostanza. Se la distanza è uno “stare lontano”, la costanza è letteralmente lo “stare con”, nel senso di “essere stabile” poiché unito in sé e a sé. Una forma di centramento tenace, un convincimento che scuote mentre sedimenta. Sostanza invece esprime lo “stare sotto”, a voler restituire della sostanza il suo carattere non transeunte che la differisce dall'accidente. Tre modi diversi di “stare”, in senso quasi topico: lontano, insieme, sotto. Eppure non è soltanto l'etimologia a unire queste tre parole. La costanza dell'essere – di un modo di essere – è quella che definisce chi siamo, la sostanza di ognuno di noi. L'eremita si distanzia dal mondo, e comprende se stesso – la sua sostanza – e il mondo – la sostanza del mondo – attraverso la costanza dell'attesa e del silenzio. Allontanandosi dal mondo, paradossalmente vi si avvicina. Allo stesso tempo, se va troppo lontano dentro di sé rischia di impazzire, se si allontana troppo dal mondo rischia di non riconoscerlo più: «sono andato un po più avanti […] fino ad andare cosí lontano che non so come potrò mai tornare indietro» (Conrad, Cuore di tenebra). L'eremita invece va lontano e supera la soglia, riuscendo però a sentire dove è situato “il troppo del troppo”, a mantenere la giusta distanza da sé e dal mondo. Come il sole, che «entra nelle latrine, ma non si sporca certo per questo» (Diogene di Sinope, detto “il cinico”).


Tra gli elementi che permisero la nascita della filosofia, ad avere un ruolo importante fu sicuramente l'approccio diverso che gli antichi greci istaurarono nei confronti della religione. I primi filosofi infatti, si posero in maniera differente rispetto alla natura, che tentarono di comprendere non più attraverso i miti, bensì tramite l'osservazione, l'analisi e la sperimentazione diretta sui fenomeni. A differenza degli ebrei, che concepiscono il loro dio come assolutamente trascendentale, gli dei ellenici erano abitanti di questo mondo, precisamente del Monte Olimpo, luogo visibile e geograficamente situato: “gli dei sono lì”. Il che significa che non erano solo gli dei a controllare i mortali, ma in qualche modo anche i mortali a “controllare” gli dei. Il timore religioso tipico dell'Ebraismo riesce cosí a trovare un modo per affievolirsi. Se il temibile JHWH poteva essere in ogni luogo e da nessuna parte, allora il popolo era soggetto al suo giudizio in ogni momento, il che ne ingigantiva enormemente l'autorità. Gli dei ellenici invece, umanizzati e “circoscritti”, vengono esposti al giudizio dei mortali, e insieme a loro a essere poste sotto la lente critica del raziocinio furono la religione e la mitologia stesse. Il che contribuí per l'appunto all'avvento del pensiero filosofico. Con l'incarnazione di Cristo poi, la distanza si annulla. Il logos si rende tangibile, fino a farsi trafiggere. Distanze differenti, religioni differenti.



Zetaesse. Fabio Migliano. La “giusta distanza” non fa coincidere il giusto con la virtù della giustizia, bensì con la concretezza e la scaltrezza dell'appropriato, e che rimanda al giusto del “fa la cosa giusta”.

Secondo la geometria euclidea, discettazione squisitamente ellenistica, la distanza è la retta che collega due punti. La distanza come congiungimento, più che separazione. Possiamo servirci di tale definizione per considerare la divisione degli e negli spazi sacri. Si prenda ad esempio il temenos nell'antica Grecia. La parola viene dal verbo greco tèmene “ritagliare”, in quanto era originariamente un semplice “ritaglio di terra” destinato a vari scopi. Vi si potevano celebrare giochi ludici, essere assegnato a regnanti o destinato a luoghi di culto. Quest'ultimo uso divenne poi quello principale, rendendo cosí il temenos precipuamente un “recinto sacro”, e per questo inviolabile. Al punto che un fuggitivo poteva trovarvi riparo e essere protetto dalla cattura fin tanto che riusciva a rimanervi all'interno. Il temenos, e in generale tutti i recinti sacri, hanno lo scopo di distanziare il sacro dal profano. Ma è paradossalmente tale distanza che crea il legame tra i due ambiti, circuendo il primo cosí che il secondo possa identificarlo, e reverenzialmente adorarlo. La medesima “distanza connettiva” presente nelle Chiese, dove il presbiterio separa il clero con l'altare dal resto della chiesa con i credenti. Una separazione funzionale a far sì che questi ultimi percepiscano lo spazio dell'altare come alterità inaccessibile: vedendo l'altro “da sé” si può percepire l'altro “in sé”. Diverso è invece il pulpito, atto a distanziare verticalmente l'officiante dall'adunanza, non solo per motivi di visibilità ma soprattutto per marcarne autorevolezza e venerabilità. Con il pulpito dunque, si ha una distanza che più che unire discerne, separa. Un carattere che pertiene parimenti al presbiterio, poiché se è vero che da un lato suggestiona attraverso un contermine fisico, è altrettanto vero che il medesimo contermine serve a ricordare all'orante e ai suoi simili che sono altro rispetto al sacro, che sono profano. Il senso non cambia: dal sacro bisogna “stare lontani”, è inaccessibile. Come il fuoco, simbolo di spiritualità e iniziazione perché infiamma ciò che tocca, ma senza per questo lasciarsi toccare. Similmente al Sole di Dionigi, ma parimenti alle Scritture: corpo spiritualmente pirico che si sottrae, restando sempre «ancora da venire» (Ouaknin, Il libro bruciato). Perpetuamente bramato, e per questo in rapporto dinamico con il lettore. Se le Scritture venissero afferrate, a mancare sarebbe la tensione del dialogo. Come a dire: “se si sopprimesse la distanza gli dei morirebbero”.



Zetaesse. Fabio Migliano. La “giusta distanza” non fa coincidere il giusto con la virtù della giustizia, bensì con la concretezza e la scaltrezza dell'appropriato, e che rimanda al giusto del “fa la cosa giusta”.

L'attuale pandemia ha temporaneamente sospeso il concetto di comunità, di ekklesia, centrale nella religione cristiana. Viene infatti a mancare una delle possibili visioni dell'altro da sé che ispira la ricerca dell'altro in sé, e che la Chiesa facilita in quanto luogo protetto dalle distrazioni, e rinvigorito da una socialità che si potrebbe definire “sponsale”. Minare il senso di comunità equivale a minare il Cristianesimo stesso. Cristo investe Pietro del ruolo di fondatore della sua chiesa, e cosí facendo garantisce la continuità della predicazione. Nella “Lettera agli Efesini” Paolo definisce la Chiesa “il corpo di Cristo”, mentre in quella ai Romani ne parla come di “un solo corpo”. Il Cristianesimo è un tripudio di corpi e di celebrazione del corpo. Nelle chiese quelli rappresentati sulle pareti, in estasi o martirizzati, ornamento ai corpi dei fedeli uniti in preghiera, suggellati simbolicamente dall'atto della comunione. Il corpo di Cristo ingerito diventa cosí il tramite trasfigurato che annoda la comunità e conduce alla vita eterna. Amen.


Distanziare i fedeli è come insinuare la divisione, nonostante sia in un certo senso proprio questa all'origine del Cristianesimo stesso. Cosí Lc 12, 51-53 riporta le parole di Cristo:


Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. Perché, da ora in avanti, se vi sono cinque persone in una casa, saranno divise tre contro due e due contro tre; saranno divisi il padre contro il figlio e il figlio contro il padre; la madre contro la figlia, la figlia contro la madre; la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera.

La buona novella è una verità unificante eppure primariamente disgiuntiva, che richiede una messa in discussione totale e la disposizione ad abbandonare tutto per abbracciare il tutto. Accoglierla equivale a decidere di imboccare la “porta stretta” della quale parla Cristo altrove (Mt 7, 13-14; Lc 13, 24), una deviazione e un allontanamento che agisce su una costante ai fini di una nuova costante. Distanziarsi da sé al punto da configurarsi come terreno sul quale ritagliare il sacro, il proprio temenos interiore al quale legarsi. Come il neonato che morde il capezzolo materno durante la suzione, e cosí facendo manifesta il suo essere altro da lei, se ne distanzia. Segno di un cominciamento identitario, anticipazione della disponibilità alla relazione con il mondo.


Dall'originaria divisione nel fedele dunque, all'attuale divisione dei fedeli. Quest'ultima affatto inedita, non solo se si considerano le varie persecuzioni che nei secoli hanno dissociato le comunità cristiane, ma altresì se si pensa al più recente mondo virtuale, sempre più ricco di esperienze religiose articolate e complesse, che rimettono in discussione il concetto di distanza e di comunità. Si iniziò negli anni cinquanta del secolo scorso, quando John Ellison fu il primo a digitalizzare la Bibbia, in quel caso la RSV (Revised Standard Version), l'edizione di riferimento per il mondo anglofono. Nel 1971 arrivò poi il Progetto Gutenberg, che mise online il più antico esemplare di Bibbia in greco antico a noi pervenuto, il Codex Sinaiticus. La diffusione di comunità virtuali permise il passo successivo, ovvero la possibilità di vivere in Rete la propria religiosità, diventando al contempo terre di proselitismo e predicazione per evangelizzatori, missionari e teologi. Degno di nota il caso del businessman anglicano Mark Brown, che nel 2006 decise di fondare la Cattedrale anglicana virtuale, all'interno del celebre mondo di Secondlife. I “virtual believers” poterono cosí avere un spazio in cui pregare, e dove scegliere insieme al pastore i programmi e i contenuti della messa. Molti di loro ammisero inoltre che questo facilitò la comprensione del funzionamento delle gerarchie ecclesiastiche. Interessante quanto afferma il professore di teologia battista Paul Fiddes, in merito alla cattedrale di Brown:


An avatar can receive the bread and wine of the Eucharist within the logic of the virtual world and it will still be a means of grace, since God is present in a virtual world in a way that is suitable with its inhabitants. We may expect that the grace received by the avatar will be shared in some way by the person behind the avatar, because the person in our everyday world has a complex relationship with his or her persona (Hutchings, Creating Church Online: Ritual, Community and New Media)



Nonostante le dovute differenze tra questo tipo di scenario e la “comunione spirituale” ai tempi della pandemia, possiamo rilevare come si ammetta in entrambi i casi la possibilità di una comunione deficitaria del corpo della salvezza. In un caso viene “virtualizzato”, nell'altro spiritualizzato. In particolare, le celebrazioni della Pasqua hanno messo in evidenza che a mancare non è solo il corpo di Cristo, carente nella comunione spirituale, né tanto meno e solamente quella dei corpi riuniti, tanto in Chiesa quando nella tradizionale processione del Venerdì santo, in cui sfilano ravvicinati e commossi. A essere sottratto è stato anche l'evento centrale della rinascita di Cristo, non più testimoniato nel reale dalla folla dei credenti, bensì visto su uno schermo, trasmesso nel senso etimologico di “messo al di là”, portato altrove. La distanza diventa incolmabile, e rende tutto inafferrabile.

Un altro aspetto che salta all'occhio leggendo la dichiarazione di Fiddes riguarda l'ambivalenza semantica della parola persona, della quale recupera l'accezione originaria di maschera, usata nel teatro classico greco al fine di amplificare la voce dell'attore. Persona è infatti la contrazione di “per sonare” (il NEZ la fa derivare invece dall'etrusco phersu, “maschera”). Di questo Fidds è consapevole, quasi a suggerire che il passaggio che portò la “persona teatrale” a significare qualunque persona è il medesimo che farebbe coincidere l'avatar con chi vi è dietro, e che in virtù di tale legame riesce a beneficiare della comunione virtuale. Ci troviamo in due casi diversi eppure simili, nei quali la distanza tra la maschera o avatar e chi li anima viene man mano a ridursi. Nel primo caso si annulla semanticamente, nel secondo diventa un congiungimento che permette la comunione. Un gioco di parti, che una distanza strana porta a confondere come acqua nell'acqua. Emerge dunque come necessaria la riflessione su quanto il mondo virtuale e le tecnologie in generale possano influenzare, sia nel senso di aiutare che di ostacolare, la dimensione religiosa e spirituale del credente. A lungo la Filosofia e la Filosofia delle religioni hanno tralasciato di occuparsi di queste implicazioni, e solo negli ultimi anni è emerso un crescente entusiasmo in merito. Scrive Bifo: «il codice è modellare il futuro e il futuro è iscritto nel codice». Non più quello miniato, ne quello biblico. Il codice par excellence è ormai quello informatico.





*FABIO MIGLIANO

Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze storico-religiose all'Università “La Sapienza” di Roma, e nel tempo si è occupato del rapporto tra spiritualità e sessualità. Al momento le sue ricerche vertono sull'influenza del mondo virtuale in ambito religioso, primariamente in merito alla digitalizzazione delle Scritture cristiane.

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