di MATTEO PICCIONI
Ingmar Bergman, Viskningar och rop (Sussurri e grida), 1972 (Still da video)
È il 1994 quando Louise Bourgeois espone alla galleria newyorkese di Peter Blum due stanze, Red Room (Child) e Red Room (Parents). I due ambienti sono realizzati dall’assemblaggio di porte in legno scuro che delimitano degli spazi circolari, mentre il rosso che dà il titolo alle opere è quello degli oggetti lì contenuti. Quelle stanze rappresentano metaforicamente – trasfigurando il vissuto personale dell’artista – il rapporto genitori/figli, tematica dominante nei lavori dell’artista franco-americana. Il talamo, il letto coniugale, posto al centro di una stanza pulita, nella disposizione simmetrica degli arredi e nella parsimonia degli oggetti presenti, si scontra con il caos della stanza del figlio, nella quale non è possibile accedere, ma che è osservabile da una finestra (è ancora leggibile la traccia di una etichetta “PRIVATE”) e abitato da sculture multiformi e rocchetti di filo. Quest’ultimo è la traccia del vissuto dell’artista, simbolo del legame che lega i genitori al figlio e che sembra portare direttamente al letto rosso dove al centro, tra i due guanciali, spicca il cuscino bianco in cui è ben visibile la frase ricamata forse con quello stesso filo rosso: «je t’aime».
L’opera d’arte, per Bourgeois, è un dispositivo atto a innescare meccanismi di ritorno all’infanzia non felice che ha forgiato la sua personalità, quasi con l’idea di impedire che quel trauma possa essere rimosso. L’intera poetica di Bourgeois è un continuo viaggio a ritroso a quei momenti della sua esistenza e l’ambiente domestico è il luogo in cui avviene questo ritorno.
Louise Bourgeois Red Room (Parents), 1994 (dettaglio), Collezione privata. Foto : © The Easton Foundation
Louise Bourgeois Red Room (Child), 1994 (veduta esterna e dettaglio), Musée d'Art Contemporain de Montréal. Foto: © The Easton Foundation / SODRAC / VAGA (2017)
Sin dalla seconda metà del XIX secolo, l’arte ha visto nell’intérieur il genere prediletto per raccontare visivamente i turbamenti connessi con i disequilibri dei rapporti familiari ma, in particolare dalla fine del secolo, esso inizia a parlare specificatamente di una intimità personale che cela sovente un desiderio di ritorno al mondo infantile. Gli interni dei pittori Nabis Édouard Vuillard e Pierre Bonnard sono pensati in tal senso, realizzati esattamente negli stessi anni in cui Freud concepisce la psicoanalisi e in anticipo su Proust, del quale, del resto, erano coetanei e amici. Lo spazio domestico è lo spazio della famiglia e dell’infanzia, luogo psicologico ideale per far emergere tensioni o desideri di recupero del passato. Vuillard, castrato da una personalità troppo introversa che lo tiene morbosamente attaccato alla madre e alla sorella, traspone, in dipinti amari e pieni di tensione – fatti di gesti ripetitivi e semplici, ricchi di pattern decorativi, come un lavoro di cucito – la complessità emotiva di tale rapporto vissuto in appartamenti rischiarati dalla luce fioca di un lume elettrico. Soltanto la nascita della nipotina Annette riporta speranza e chiarore nei suoi interni, indicando come il mondo dell’infanzia sia l’unico antidoto alle difficoltà esistenziali dell’età adulta. Bonnard analizza le tematiche domestiche muovendosi nella medesima direzione, ma in modo diverso, vale a dire, non facendo emergere le idiosincrasie della sua famiglia, bensì dedicando a sua nonna, a sua madre e ai suoi nipoti dipinti che fondono l’attimo presente con il passato, con il suo vissuto, divenendo in ultima analisi strumenti utili a riportare la sua mente a quando, bambino, era lui il protagonista dei pasti serali sotto il cerchio della lampada della casa di vacanza a Le Grand-Lemp.
Édouard Vuillard Dans un intérieur, effet de soir ou Intérieur au chiffonnier, 1893. Kunstmuseum, Winterthur | Pierre Bonnard, La Lampe, 1899 ca. Flint Institute of Arts, Flint (Michigan)
Lo spazio domestico è – a fine Ottocento come ancora oggi – la metafora della chiusura rispetto al mondo e allo stesso tempo è, per Louise Bourgeois, la rappresentazione del corpo e specificatamente del corpo femminile. Le Red Rooms sono, in questo senso, uno degli esiti delle ricerche di sul tema, iniziate a partire dal 1989. Cells (intesa nel senso biologico di ‘cellula’, ma anche in quello monastico di ‘cella’) è il titolo delle stanze create dall’assemblaggio di elementi eterogenei con lo scopo di ospitare gli oggetti creati dalla stessa artista. L’idea centrale è quello di segnare un confine evidente tra lo spazio interno (il mondo) e lo spazio esterno (l’individuo). Gli elementi che compongono tali frontiere possono essere delle grate (e a quel punto la Cell diventa una gabbia) o delle porte che non sempre si possono aprire, ma che sono accessibili allo sguardo dello spettatore. È una pelle che può essere trasparente o che presenta lacerazioni che permettono di leggere un interno abitato da frammenti materiali di ricordi. Sono – con riferimento al titolo di una importante mostra del 2015-2016 – “strutture dell’esistenza”: confortevoli, perturbanti o anche estremamente violente.
Il lavoro di Bourgeois mira a isolare il materiale psicologico, chiudendolo nel sicuro dei sei lati di una stanza, ma allo stesso tempo vuole stimolare il voyerismo. Tutta l’arte che ha a che fare con l’intérieur è una messa in scena dell’atto del voyeur. Questo era chiaro nel Settecento, quando i dipinti galanti rococò erano concepiti come l’incursione di uno sguardo indiscreto dentro le camere da letto in cui si consumavano atti libidinosi, ma la stanza è sempre stato lo spazio scenico di una narrazione che sia quella della vita reale, di una pièce teatrale, di una immagine o, più tardi, di uno schermo.
Louise Bourgeois Cell (The Last Climb), 2008. National Gallery of Canada, Ottawa. Foto: © The Easton Foundation / VEGAP, Madrid | Louise Bourgeois Structures of Existence: The Cells, 2016, (installation view). Foto: © The Easton Foundation / Louisiana Museum
Chiudersi nel guscio protettivo rappresentato dalla propria casa, vera «custodia dell’uomo moderno», come indicato da una celebre definizione di Walter Benjamin, è diventato un leitmotiv della cultura degli ultimi due secoli. La clausura, forzata o meno, pone l’accento sull’idea di stanza quale “dispositivo della distanza”, in particolare per quanto concerne la stanza simbolo dell’isolamento, la camera da letto.
Michele Perrot ha scritto nel 2009 uno dei libri più interessanti sulle camere, Histoire des chambres (la traduzione italiana, Storia delle camere, è stata edita da Sellerio nel 2011), intrecciando storia della vita privata e storia della letteratura. La studiosa francese ha evidenziando come la camera sia centrale nella storia della cultura in quanto luogo per eccellenza dove, da soli o in coppia, ci si rifugia dal mondo esterno per potersi dedicare alla propria intimità: «la camera è il teatro dell’esistenza o almeno ne è il retropalco, il luogo dove il corpo nudo, deposta la maschera, si abbandona alle emozioni, al dolore, alla voluttà» (Perrot 2011, p. 23).
La camera è uno spazio vitale minimale; è il grado zero della protezione dal mondo esterno, che sia naturale o antropizzato; è il luogo della casa più personalizzato, in particolare dagli adolescenti o da chi condivide un appartamento. Le camere possono essere teatro di violenza fisica o emotiva, come rivelano alcuni artisti moderni e contemporanei.
Edgar Degas Intérieur (Le Viol), 1868 ca. Philadelphia Museum of Art
Intérieur di Edgar Degas (1868 ca., Philadelphia Museum of Art) racconta probabilmente di uno stupro come indica il titolo apocrifo, Le Viol. In una camera dal letto in penombra, un uomo e una donna sono chiaramente reduci da un conflitto. Lui è con la schiena appoggiata alla porta, mani in tasca, volto alto e fermo, lei – dandogli le spalle – piegata su stessa, raggomitolata, palesemente sofferente. La stanza è illuminata solo da un lume artificiale posto quasi al centro della scena e dal bagliore flebile di un caminetto che insiste sullo stesso asse. Emerge una tensione drammatica, palpabile e angosciante. Come in un romanzo poliziesco, la scena del crimine pullula di indizi che rimandano a un atto sessuale consumato o comunque tentato, in ogni caso forzato: il fatto che la ragazza sia spogliata, vestita solo della camiciola e della sottogonna tipiche della biancheria intima ottocentesca; il corsetto a terra (un riferimento esplicito ad un atto normale della pratica sessuale del tempo, legato al fatto di liberare la donna dalle barriere che ne impedivano l’accesso diretto al corpo); la presenza di quelle che sembrano essere una o più macchie di sangue sul copriletto, visibili al fianco dei vestiti e del cappello di lei, a ridosso della ringhiera e anche, più tenue, al centro del letto. Ma al di là di questo, il dipinto è la rappresentazione di una visione che vede distanti l’universo maschile e quello femminile, si potrebbe credere una ferma attestazione della nota misoginia di Degas o, per meglio dire, della sua difficoltà a instaurare rapporti stabili. Il contrasto è reso evidente nella maniera bipolare di presentare i protagonisti: l’uomo è in piedi, dritto, oscurato dalla penombra, poggiato contro la porta come a impedire una fuga; la donna, curva, sospesa in qualcosa tra il seduto e l’accovacciato, ha le spalle nude rischiarate dalla luce e il volto cupo di chi non ha il coraggio di guardare sul viso chi le ha fatto del male.
Il contrasto maschile-femminile basato sulla mancanza di intesa, sulla difficoltà dei rapporti, sulla fine di un amore è reso spesso, nella storia dell’arte e nella cultura visiva, con la rappresentazione di una contrapposizione fisica dei protagonisti mentre si trovano all’interno di una stanza. Già William Hogarth, nel 1743, aveva sottolineato il disequilibrio di coppia del Marriage à-la-mode (Londra, National Gallery), specificatamente in The Tête-à-Tête, il secondo quadro della serie, insistendo sulla rappresentazione dell’indifferenza dei protagonisti, l’uno verso l’altra, concependo in tal senso una scena “anti-familiare” poiché contrapposta alla rappresentazione canonica dell’armonia di coppia, spesso mostrata, nelle immagini del tempo, con la convergenza dei coniugi attorno a un tavolo. In anni più recenti, Nan Goldin, nel racconto autobiografico The Ballad of Sexual Dependency (1985) – circa settecento fotografie, scattate tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, presentate come uno slideshow accompagnato da una colonna sonora composta da canzoni di vario genere – ha offerto numerose immagini che muovono sugli stessi fronti, per esempio in Couple in bed (1977), Greer and Robert in their Bed (1981), Nan and Brian in bed (1981), laddove la contrapposizione visiva tra uomo e donna è indice di una incomunicabilità che appare insuperabile. Le foto di Goldin dichiarano esplicitamente che spesso è proprio nelle stanze che si consumano le distanze e le tracce dolorose di quelle esperienze restano impresse sui muri, sui pavimenti, sugli arredi.
William Hogarth Marriage à-la-mode. 2: The Tête-à-Tête, 1743. Londra, National Gallery | Nan Goldin The Ballad of Sexual Dependency. Couple in bed, 1977 © Nan Goldin
Nan Goldin The Ballad of Sexual Dependency. Greer and Robert in their Bed, 1981 © Nan Goldin | Nan Goldin, The Ballad of Sexual Dependency. Nan and Brian in bed, 1981 © Nan Goldin
La sovrapposizione tra vissuto personale e opera d’arte traslato nella dimensione domestica messa in campo da Louise Bourgeois è una tematica che torna centrale negli anni Novanta del Novecento, esattamente un secolo dopo le esperienze postimpressioniste/simboliste dei Nabis che in un certo senso hanno avviato esperienze siffatte. Se gli ambienti assemblati di Bourgeois sono la messa in scena della sua dimensione interiore come letta dalla psicologia freudiana, uno scatto in avanti avviene nella ricerca di Tracey Emin laddove My Bed (1998), il letto dell’artista prelevato dalla sua stanza da letto ed esposto, tale e quale, dopo quattro giorni di smarrimento legato alla fine di un amore, non è più rappresentazione del suo mondo interiore, ma presentazione della sua vita vissuta, è ciò che resta del suo dolore, è l’ostensione della sua sindone. Con My Bed le barriere che delimitano lo spazio del privato da quello del pubblico vengono abbattute definitivamente: non è più necessario spiare da un buco della serratura per scoprire l’intimità di colui che si racconta. Il paradigma del voyeur è saltato, così come la distanza tra l’artista e lo spettatore.
Tracey Emin, My Bed, 1998, The Duerckheim Collection in deposito alla Tate Modern, © Tracey Emin
*MATTEO PICCIONI
È storico dell’arte e si occupa di cultura artistica e visiva del “lungo Ottocento” (1789-1914) e di arte contemporanea. Ha scritto sulla storia della rappresentazione domestica, sulla storia della critica d’arte del Novecento, sulla storia dell’illustrazione tra XVIII e XX secolo, sul rapporto tra immagini e letteratura.
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