di SOPHIE JANKÉLÉVITCH
Partendo dalle tragedie vissute ogni giorno da uomini, donne e bambini in fuga dai conflitti che flagellano i loro paesi, i media hanno prodotto un nuovo oggetto di cui si sono appropriati tanto i politici quanto i semplici cittadini come noi: la «crisi dei migranti» di cui quasi tutti i giorni sentiamo parlare. Chiariamo subito, non si tratta qui di negare le difficoltà scaturite dall’accoglienza e dal farsi carico di coloro che, sempre più numerosi, sbarcano sulle coste europee o arrivano via terra nella speranza di una vita migliore o soltanto vivibile. Si tratta di riflettere sul linguaggio, o piuttosto su un certo uso del linguaggio che consiste nel produrre effetti attraverso mezzi puramente retorici e nel creare finzioni attraverso la fabbricazione di formule che dispensano da ogni riflessione e, nello stesso tempo, facilitano associazioni automatiche. Studiando la lingua usata dai nazisti, Victor Klemperer ha dimostrato come il più potente strumento di propaganda per il nazismo non fossero i discorsi dei dignitari di corte, il contenuto delle loro dichiarazioni, ma «le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente» (LTI La lingua del Terzo Reich). Attraverso i modi di maneggiare la lingua s’insinua dunque un’intera visione del mondo, di cui ognuno può appropriarsi senza rendersene conto. Nella nostra attualità recente, non mancano certo gli esempi per illustrare questo potere delle parole: la frase «bisogna avere paura di…» (dei migranti certamente, ma anche: delle sigarette elettroniche, degli OGM, delle nuove tecnologie, delle scienze sociali, ecc.) appare regolarmente sulle copertine di varie riviste, funziona come un’esca per il potenziale consumatore poiché gioca sulle sue fantasie. Ci si ricorderà anche del «disagio delle banlieues (malaise des banlieues)», con la sua variante delle «banlieues problematiche (banlieues à problèmes)», che ha riempito i discorsi dei giornalisti negli anni ‘80 e ‘90 (erano scoppiate delle rivolte nel quartiere di Minguettes, alla periferia di Lione), facendo pensare che le banlieues francesi fossero dei postacci. Allo stesso modo, in molti discorsi politici di cui è inutile precisare l’orientamento, il «problema dell’immigrazione» – metamorfosi contemporanea della «questione ebraica» o «tzigana» – fa diventare patologico un fenomeno ordinario in un contesto di globalizzazione e presenta l’immigrazione come una sorta di cancro, da cui la nostra società non può ricavare alcun beneficio.
Lo stesso effetto si ripete oggi con la «crisi dei migranti»: queste parole sono ormai inseparabili, incollate l’una all’altra, attratte da una forza magnetica, come nel Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert «gelosia» è «sempre seguita da “sfrenata”», o «ebbrezza» è «sempre preceduta da folle»… L’associazione automatica di alcune parole è uno dei meccanismi effettivi all’opera nella produzione dei cliché e degli stereotipi. Chi pensa «migranti» penserà necessariamente «crisi»: i migranti non sono nient’altro che la crisi che provocano. In quanto esseri viventi, in carne ed ossa, con la loro storia, la loro lingua, la loro cultura, la loro famiglia, non esistono per nessuno… La loro realtà non è presa in considerazione, non suscita alcuna curiosità, nessun desiderio di conoscenza; è letteralmente cancellata, spazzata via dalla formula composta da queste due parole messe insieme. La caratteristica di questo tipo di linguaggio è il suo potere di derealizzazione. La parola si sostituisce alla cosa. La prossima tappa sarà senz’altro la sostituzione della formula stessa con una sigla: parleremo della C. M. come si parla degli SDF (acronimo francese di “senza fissa dimora”), degli ENAF (“bambini appena arrivati in Francia”), per designare categorie di individui la cui umanità è stata confiscata dalla logica amministrativa, esseri astratti che esistono soltanto per essere «gestiti». Ma questa moneta svalutata che è il linguaggio mediatico, questi segni che non si riferiscono a niente, conservano nel contempo una temibile efficacia: quella di modificare in profondità la nostra percezione delle cose. La «crisi» dei migranti non rinvia alle situazioni affrontate da queste persone pronte a tutto per sfuggire alla miseria o alle persecuzioni, ma soltanto ai disordini che sono passibili di occasionare nei paesi in cui transitano. In tal modo sarà ancora più facile farne dei capri espiatori e renderli responsabili dei mali che affettano le società europee. [L’articolo è stato pubblicato per la prima volta in lingua francese su Vice Versa Online (Magazine Transculturel), il 25 settembre 2016. La traduzione italiana è di Daniele Garritano]
*SOPHIE JANKÉLÉVITCH
È insegnante di filosofia. Attualmente collabora con associazioni di accoglienza per richiedenti asilo insegnando il francese ai rifugiati. Vive a Parigi.
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