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Continuità leonardesche, NATURA | 1.a Montagne e rocce

di MARCO VERSIERO


1.a MONTAGNE E ROCCE CONTINUITÀ#1

Zetaesse, Marco versiero, Continuità leonardesche: la natura allo specchio

Fig. 1: Ultima Cena 1494-1498 circa.

Tempera e olio su due strati di preparazione gessosa (carbonato di calcio e bianco di piombo), stesa su intonaco, con residui di rifiniture a oro, cm 460 × 880. Milano, Santa Maria delle Grazie, refettorio (parete nord).

Non si conosce la data di inizio della pittura murale ma la commissione ufficiale di Ludovico il Moro, sebbene non direttamente documentata, è desumibile da una lettera dello stesso duca al suo segretario Marchesino Stanga, datata 29 giugno 1497, affinché solleciti «maestro Leonardo fiorentino perché finischa l’opera del Refettorio delle Gratie principiata». L’estrema lentezza nei tempi di esecuzione fu tale che Leonardo poté licenziarla solo alla all’inizio del 1498, stando all’asserzione di Luca Pacioli nella lettera dedicatoria del suo trattato De divina proportione, datata 9 febbraio, in cui la si dice ormai compiuta. Tale lunghezza di lavorazione è senz’altro da imputarsi alla tecnica del tutto sperimentale seguita per dipingere sulla grande parete direttamente con colori a tempera e a olio, come se si trattasse di una gigantesca pittura su tavola: i pigmenti furono applicati a secco, anziché seguendo la tecnica dell’affresco che avrebbe viceversa imposto rapidissimi tempi di esecuzione, non risultando congeniale ai continui ripensamenti propri del modus operandi vinciano. La configurazione dell’invaso architettonico in cui è ambientata la scena, concepito in base a uno spettacolare e scenografico impianto prospettico con finalità illusionistica, teso a far continuare l’architettura reale della sala del refettorio nella stanza dipinta, si appella anche a una sofisticata situazione ottica e luministica, scandita da tre fonti di illuminazione differenziate (frontale, laterale – a sinistra di chi guarda – e dal fondo). La solenne e tragica figura di Cristo, colta nella profonda umanità del suo annuncio del tradimento imminente, è come contornata in un’aureola di luce dal paesaggio inquadrato dalla finestra retrostante: recuperata per frammenti nei suoi preziosi cangiantismi cromatici dal restauro del 1978-1999, la veduta di un placido borgo turrito che sbiadisce alla vista contrasta con la concitazione emozionale del tema sacro.

Fig. 2:Madonna della melagrana (Madonna Dreyfus) 1469-1470 circa.

Olio su tavola di pioppo, cm 16,5 × 13,4. Washington, D.C., National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. 1952.5.65.

Dovrebbe risalire a un tempo molto prossimo al 1469, anno in cui Andrea del Verrocchio compì un viaggio nel Veneto, probabilmente seguito dal giovane assistente Leonardo. Il minuscolo dipinto testimonia in effetti della possibile influenza esercitata sul suo precoce talento dall’arte lagunare, specialmente nell’adozione di una gamma cromatica estremamente delicata, giocata su una rarefatta “smaterializzazione” del colore (che conosce analoghi esempi nella pittura di Giovanni Bellini e del suo ambito): ciò è particolarmente evidente nella leggerezza di velature e trapassi chiaroscurali che accarezzano il volto dolcissimo della Vergine, così come nella consistenza eterea dei riflessi di luce che ne picchiettano la bionda capigliatura. Inoltre, i due squarci di paesaggio inquadrati dalle due finestre nel fondo sembrano già offrirsi come una timida anticipazione della “prospettiva aerea” o “dei perdimenti”, teorizzata e messa in pratica da Leonardo solo molti anni più tardi: infatti, la graduale evanescenza dei toni cromatici, man mano che lo sguardo si proietta sull’orizzonte lontano, lascia già qui sbiadire le cime delle montagne in suggestive trasparenze azzurrine.

1.a MONTAGNE E ROCCE CONTINUITÀ#2

Zetaesse, Marco versiero, Continuità leonardesche: la natura allo specchio

Fig. 3: Battesimo di Cristo, Andrea del Verrocchio, Leonardo e bottega, 1470-1473 circa e 1475-1478.

Tempera e olio su tavola di pioppo, cm 179,5 × 152,5. Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 8358.

Proveniente dalla distrutta chiesa di San Salvi poco fuori le mura di Firenze, presenta uno straordinario palinsesto non solo delle pratiche e dei modelli in uso nella bottega del Verrocchio allo scorcio dell’ottavo decennio del Quattrocento, ma anche delle tendenze più attuali del panorama artistico fiorentino del tempo. La tradizione della presenza in San Salvi di «uno Angelo di Leonardo da Vinci» (dal Memoriale di Francesco Albertini, 1510) venne recepita dal Vasari (1550) che attribuì anche a questo episodio di collaborazione la fantasiosa decisione del maestro di abbandonare la pittura da allora in poi, «sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui». Nondimeno, è impensabile che l’ardita costruzione dell’angelo in diagonale nello spazio, enfatizzata dalla calibratissima postura di spalla del busto, quasi in contrapposto, e dall’orientamento in profil perdu del volto, possa essere considerata più arcaica di un’opera sicuramente precedente come l’Annunciazione degli Uffizi (1472-1474 circa). L’originaria commissione al Verrocchio potrebbe rimontare già al 1468, quando la presenza del fratello Simone è attestata in San Salvi come abate del convento, mentre pare plausibile supporre che Leonardo si sia assunto di completare il dipinto verso il 1475 e forse non oltre il 1478, anno in cui riceve l’incarico, presto abbandonato, di dipingere la pala per la cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, un evento che sembra ragionevolmente segnare la sua emancipazione dal Verrocchio.

Fig. 4: Vergine delle rocce (seconda versione), Leonardo (e bottega?), 1491-1493 circa e oltre (con una ripresa nel 1506-1508).

Olio su tavola di pioppo, cm 189,5 × 120. Londra, National Gallery, inv. NG 1093.

Consegnata ai confratelli dell’Immacolata Concezione ed esposta sull’altare della loro cappella in San Francesco Grande a Milano, nel 1781 passò ai frati di Santa Caterina alla Ruota, dai quali fu acquistata nel 1785 da Gavin Hamilton; attraverso successivi passaggi proprietari pervenne all’attuale sede nel 1880. Seconda versione del dipinto del Louvre realizzato intorno al tempo del contratto di allogazione a Leonardo e ai fratelli de Predis (25 aprile 1483), dovrebbe essere stata alloggiata insieme a due tavole laterali con angeli musicanti in una complessa cornice lignea intagliata da Giacomo del Maino già nel 1482, in seguito dispersa; all’origine della sostituzione, avvenuta intorno al 1493 a seguito della richiesta di un ignoto privato estimatore di subentrare ai committenti, si situerebbe una lunga vertenza legale con questi ultimi, durata venticinque anni sino al 1506-1508, probabilmente causata dall’iconografia eterodossa e semi-ereticale della prima versione. I due dipinti si dimostrano molto diversi sul piano formale, perché una decisiva svolta nello stile di Leonardo era frattanto maturata, soprattutto in conseguenza degli studi di ottica e di «ombra e lume» testimoniati principalmente dal ms. C dell’Institut de France (1490-1491 circa). In base a questi studi, infatti, si giustifica la differente concezione luministica della seconda versione, giocata su una luce più fredda e astratta, così da rendere insistito il gioco delle ombre e da tornire le figure sbalzandole dallo sfondo e quasi proiettandole oltre il piano dipinto. Tale artificio è accentuato anche mediante l’accelerazione della prospettiva nel fondale, dove uno squarcio di luce si apre tra denti di rocce sullo scenario cristallino di un paesaggio montano, fino a produrre l’impressione di un’immagine riflessa in una lente convessa, in cui le figure, di proporzioni pur così simili a quelle della prima versione, risultano apparentemente più monumentali.

1.a MONTAGNE E ROCCE CONTINUITÀ#3

Zetaesse, Marco versiero, Continuità leonardesche: la natura allo specchio

Fig. 5: Battesimo di Cristo (v. Fig. 3)

Il paesaggio in alto a sinistra, concettualmente vicino al primo disegno conosciuto di Leonardo (la celeberrima veduta della vallata dell’Arno datata 5 agosto 1473), deve molto della sua apparenza fluida e quasi liquida, suggestivamente moderna, alla verosimile necessità di adattarsi ad una altrui primitiva stesura, modificandola. Pare plausibile convenire che, come per altri passaggi della riforma stilistica – dalla ridefinizione anatomica del corpo di Cristo, reso tanto più vibrante del legnoso Battista che gli sta di fianco, all’allargamento delle acque in primo piano e alla perizia naturalistica nella resa dei ciottoli della ghiara – si sia in presenza di un intervento ormai prossimo nel tempo alle opere più avanzate della prima giovinezza di Leonardo, verso il 1478-1480 circa. Influenzata dai coevi esempi fiamminghi pervenuti a Firenze, l’adozione della tecnica innovativa della pittura a olio ne differisce però per la scelta di Leonardo di declinare il proprio naturalismo in una visione di sintesi, che, anziché insistere sulla lenticolare precisione ottica dei dettagli, preferisce restituire il vivissimo senso organico delle forme colte nel loro divenire.

Fig. 6: Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello 1503 circa, 1508-1510 e oltre.

Olio su tavola di pioppo, cm 168,4 × 113. Parigi, Musée du Louvre, inv. 776.

Una postilla manoscritta di Agostino Vespucci, conoscente di Leonardo, all’edizione del 1476 delle Epistulae ad familiares di Cicerone, recentemente rintracciata alla biblioteca universitaria di Heidelberg, informa che nell’ottobre del 1503 la composizione di questo dipinto era stata abbozzata nella testa della madre della Vergine, messa idealmente a paragone con il mirabile e leggendario esempio della perduta Venere di Apelle. Nell’ottobre del 1517 la tavola è ricordata come «una Vergine col Figlio che stanne posti in grembo ad sancta Anna» nel diario manoscritto di Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, in visita al maniero di Cloux dove Leonardo aveva stabilito la sua ultima residenza, ospite di Francesco I. Anche Paolo Giovio (1525) e l’Anonimo Gaddiano (1540 circa) confermano l’andata in Francia del dipinto, per acquisto del re: si trattava forse di uno dei quadri vendutigli nel 1518 dallo scaltro allievo di Leonardo, il cosiddetto Salai, che riportò a Milano le corrispondenti copie dei dipinti del maestro, difatti inventariate nel suo testamento del 1525. Leonardo doveva aver ripreso a lavorare a quest’opera, rimasta incompiuta alla sua morte, a Milano tra il 1506 e il 1508, per il predecessore di Francesco I, Luigi XII: essa potrebbe in effetti coincidere con uno dei «due quadri di due Nostre Donne di varie grandezze, le quali son fatte pel Cristianissimo nostro re», menzionate in due sue bozze di lettere della primavera del 1508.

1.a MONTAGNE E ROCCE CONTINUITÀ#4

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Fig. 7: Vergine delle rocce (v. Fig. 4)

Il dipinto offre una revisione concettualmente sofisticata e intellettualistica del naturalismo di Leonardo, che ha modificato la situazione spaziale e atmosferica, come dissipando d’un tratto la freschezza ancora tardogotica del dipinto di Parigi, la cui soffusa e umbratile atmosfera lasciava affiorare dal mistero di quell’antro oscuro unicamente la radiosa presenza spirituale delle figure sacre. Alla luce diffusa e come insinuatasi tra le rotture della montagna della prima versione, si contrappone, dunque, nella seconda, un lume universale che limpidamente tutto percorre e descrive, fin nelle fenditure della pietra che le ombre del dipinto del Louvre avevano lasciato indefinite e nella consistenza più turgida e materica delle erbe e dei fiori. La tavola di Londra, conformemente a quanto riferito nei documenti che la riguardano, si presenta tuttora incompiuta in alcune parti: la mano sinistra dell’angelo in primo piano, portata a sorreggere il Bambino sul ciglio del piano d’appoggio, nonché la definizione degli strati rocciosi di quest’ultimo. Ma queste parti appena abbozzate coesistono con altri brani di pittura finitissima, come le raffinate trasparenze dei veli sulla manica dell’angelo o la vivacissima resa della sua vaporosa capigliatura ricciuta.

Fig. 8: Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello (v. Fig. 6)

Il movimento obliquo col quale Maria si proietta amorevolmente verso il Figlio conferisce alla composizione una sconcertante precarietà, accentuata dalla vertiginosa sporgenza della balza rocciosa in primo piano, in cui è spettacolare la minuziosa attenzione e competenza geologica con cui sono resi i ciottoli della ghiara, quasi in forma di pietre preziose. Tra essi sembra persino di poter intuire la presenza di “nicchi” o fossili (del tipo assiduamente studiato da Leonardo durante il periodo romano, 1513-1516, in occasione delle escursioni a Monte Mario), pur non potendoli realmente distinguere con nettezza. Il recente restauro (2008-2012), inoltre, ha rivelato l’affiorare di uno specchio d’acqua che il piede sinistro di sant’Anna arriva a lambire, come a voler alludere, quasi in un persistente ricordo dell’ambientazione del verrocchiesco Battesimo di Cristo, a una lenta e inesorabile confluenza delle distese d’acqua del lontano paesaggio montano sino al bacino in primo piano.


1.a MONTAGNE E ROCCE CONTINUITÀ#5

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Fig. 9: Ornamentazione allegorica 1498-1499 circa.

Tempera e olio (?) su intonaco. Milano, Castello Sforzesco, torre nord-est, Sala delle Asse dettaglio della decorazione parietale nord-orientale.

Con una lettera del 21 aprile 1498, il segretario ducale Gualtiero da Bascapè faceva sapere al Moro: «Lunedì se desarmerà la camera granda da le asse, cioè da la tore. Magistro Lionardo promete finirla per tuto septembre». Appena riscoperta di sotto a successivi strati di scialbo, tra il 1893 e il 1898, la decorazione della volta fu subito sottoposta a un estensivo e disinvolto “restauro” pittorico e ricostruttivo, commissionato da Luca Beltrami a Ernesto Rusca nel 1901-1902, al quale scampò il grande brano del monocromo parietale di radici e rocce. Il greve rifacimento della volta, dapprima alleggerito da una parziale pulitura di Ottemi della Rotta del 1954, è stato ultimamente sottoposto, dal 2013, a un radicale intervento di restauro a cura dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, tuttora in corso. Leonardo ha specificamente inteso rappresentare alberi di gelso, ovvero “mori”, allusivi non solo onomasticamente alla personalità stessa del Moro, ma anche all’economia del Ducato sforzesco basata sull’allevamento dei bachi da seta mediante la coltivazione dei gelsi. L’invenzione figurativa è capace di evocare uno spaccato di sottosuolo in cui la vitalità della natura è colta nell’atto istantaneo del suo manifestarsi, secondo un mirabile equilibrio di forze compresse e in tensione, sottoposte a una continua trasmutazione nel modo in cui le radici degli alberi si insinuano tra gli strati di pietra: a tale drammatica rappresentazione delle caotiche energie generative della natura sarebbe corrisposto, sulla volta, un lussureggiante pergolato in cui l’intrico del fogliame dei fusti arborei si combina illusionisticamente alla geometria dei nodi di corda, fino a convergere sullo stemma ducale, ad indicare la perfezione del buon governo sforzesco, saldamente radicata nelle sue fondamenta.

Fig. 10: Madonna dei fusi (o dell’aspo) Leonardo (?) e collaboratore, 1501-1506 circa.

Olio su tavola trasportato su tela, cm 50,2 x 36,4. New York, collezione privata.

In una lettera a Isabella d’Este del 14 aprile 1501, il carmelitano Pietro da Novellara, a seguito di una visita allo studio di Leonardo nel convento della Ss. Annunziata di Firenze, descriveva un «quadretino» raffigurante «una Madona, che sede como se volesse inaspare fusi e il bambino, posto il piede nel canestrino dei fusi, a preso l’aspo e mira atentamente quei quattro raggi che sono in forma di croce». Del dipinto esistono due versioni principali: questa in collezione privata americana e un’altra in proprietà del duca di Buccleuch in Scozia, oltre a una nutrita serie di copie e derivazioni di bottega e di ambito persino ibero-fiammingo, che ne attestano la larga e fortunata diffusione nel corso dei primi due decenni del Cinquecento. Tra i passaggi che hanno consentito di ipotizzare un diretto intervento di Leonardo nella stesura pittorica – per il resto affidata a garzoni incaricati di produrre retrati ovvero copie sotto la sua supervisione, come rammentato dallo stesso Novellara in una precedente missiva alla marchesa di Mantova del 3 aprile 1501 – si annovera la perspicua resa naturalistica del sedile di pietra su cui poggiano le due figure in primo piano, sapientemente indagato nelle sue stratificazioni geologiche.

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Zetaesse, Marco versiero, Continuità leonardesche: la natura allo specchio

Fig. 11: Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello (v. Fig. 6)

Il senso di disorientamento prodotto dalla visione del dipinto è accresciuto dal lunare panorama di sfondo, nel quale le vette ghiacciate delle montagne, assorbite nella foschia lattuginosa di un orizzonte che si perde fino a sbiadire alla vista, si sfrangiano e frastagliano nella maniera tipica di Leonardo. Tuttavia, la solidità della pietra, già ritradotta nella consistenza friabile dei profili montuosi di alcuni disegni coevi che vi sono stati rapportati, appare come dissolta e rappresentata nel momento della scaturigine primordiale (o della finale implosione del mondo): i vapori di condensa avvolgono ancora i fenomeni millenari di erosione e trasformazione della materia, colti illusoriamente da Leonardo nel loro ineluttabile divenire.

Fig. 12: Madonna dei fusi (v. Fig. 10)

La resa atmosferica del complesso paesaggio montano, anticipatore degli sfondi della Gioconda e della Sant’Anna, si caratterizza per la conduzione pittorica evanescente delle vette sfrangiate e per il carattere primordiale degli scisti rocciosi. In anni recenti si è tentato di riconoscervi il caratteristico scenario geologico delle Balze nel Valdarno Superiore, con le tipiche conformazioni tufacee, dai profili frastagliati ed erosi, dei cosiddetti “calanchi” e persino l’indicazione del corso dell’Arno all’altezza del ponte a Buriano, presso Arezzo. Al di là di ogni verosimile localizzazione topografica, persino un’opera di collaborazione tra Leonardo e la sua bottega, come questa, dimostra quanto preponderante resti nella sua visione la percezione della dimensione vitalistica del mondo naturale, ritradotta nella morfologia dei suoi fenomeni trasformativi.





*MARCO VERSIERO

È postdoctorant in Études Italiennes presso il laboratorio Triangle alla École Normale Supérieure di Lione (2016/2017). È dottore di ricerca in Filosofia Politica (Università di Napoli L’Orientale) e in Letteratura Italiana Moderna (Istituto Italiano di Scienze Umane - Scuola Normale Superiore di Pisa) ed è stato abilitato dal MIUR come docente universitario associato (2013)

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