di MENA MITRANO
Il pensiero ha fatto della sparizione il suo fulcro. Da quel punto fermo è riuscito a sollevare l'essere e a metterlo in discorso. Da Martin Heidegger a Hannah Arendt, da Walter Benjamin a Giorgio Agamben, il pensiero moderno avanza con incedere incantevole perché in equilibrio tra l' essere e il non-essere, il visibile e il non-visibile, il pieno e il vuoto, il significato e la pulsione, e si è spesso rivolto all'arte e alla letteratura per coltivare questo passo di Gradiva: Heidegger a Van Gogh, Arendt a Herman Melville e a Henry David Thoreau, Benjamin a Goethe, al surrealismo e alla fotografia, Agamben a Cristina Campo, per citare solo alcuni riferimenti.
Che cosa sono veramente le scarpe da contadina raffigurate da Van Gogh (1886) quando le guarda Heidegger? La verità delle cose che formano il nostro mondo, ci viene detto. Questa verità, messa in opera dall'opera d'arte, si sporge verso lo spettatore/lettore come fosse un'apertura delle cose, un'apertura trasformativa che dona al muto osservatore una nuova consapevolezza di pensatore, di soggetto di linguaggio e di pensiero, e che Heidegger, in una storica traduzione inglese del testo originale in tedesco, chiama "de-concealing": non-nascondimento. Sparire non è mai una questione troppo innocente. Tra i primi significati di sparire elencati nel dizionario troviamo sottrarsi, non esserci più, dileguarsi, rendersi introvabile, irreperibile, cessare di presentarsi in un determinato ambiente o di svolgere una data attività, rendersi irreperibile. Sparire è nascondersi, ritrarsi. Si può sparire restando lì dove siamo, come Bartleby, il copista di un racconto di Herman Melville, celebrato da Giorgio Agamben e Gilles Deleuze (1993), il quale per sparire resta immurato nel suo ufficio. Chi sparisce così ha una determinazione irresistibile. Bartleby dice "no" con garbo, e tutti lo ascoltano, anche chi sa alzare la voce. Il suo è un modo speciale di sottrarsi, una sospensione, come la chiama Agamben, e cioè una forma di resistenza individuale ma non per questo meno importante, meno politica. Al contrario.
Per il pensiero greco, ci dice Heidegger, il sapere consiste nella manifestazione o svelamento degli esseri (aletheia), o, per dirlo diversamente, dalla fuoriuscita dal nascondimento. Animato da questo antico sapere, il filosofo guarda l'oggetto d'uso (quelle scarpe di contadina) e questo gli restituisce lo sguardo, gli risponde donandogli dalle cavità buie, traccia e impronta di un possessore che non c'è, la capacità di dare un linguaggio e una presenza a chi storicamente tutto questo non lo ha. Il pensiero della decostruzione e quello femminista non hanno intravisto nulla di particolarmente poetico in questo gioco di sguardi tra l'umano e le cose, ma solo un atto di appropriazione, una corsa, come dice Jacques Derrida, alla restituzione della verità al giusto possessore facendo muovere e parlare uno svariato numero di soggetti deboli, incluso il concetto stesso di soggetto (siamo sicuri che le scarpe non siano scompagnate e quindi appartengano a qualcuno?).
Al di sopra delle diatribe, è questo movimento verso il fuori che Hannah Arendt mette al centro del proprio pensiero. È forse con Arendt che comprendiamo l'importanza di questa verità inseparabile dal non-nascondimento, da un moto verso il fuori e da un manifestarsi che è sinonimo dell'esistenza stessa. Proprio come in quel versetto di Matteo: "Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa" (5:15).
Uscire fuori dal nascondimento è bellezza, diceva Heidegger. Riprendendo con più convinzione l'idea del maestro, Arendt afferma con un tono di inconfutabilità: "Tutto ciò che esiste deve apparire," e teorizza uno "spazio dell'apparenza," una sfera pubblica di linguaggio e di discorso in cui è possibile esser visti e uditi dagli altri e vedere e udire gli altri, riconoscendosi a vicenda, dove tutto ciò che è imploso o scomparso chiudendosi in sé può rifulgere alla luce del sole, davanti al mondo. Questo passaggio dall'implosione del nascondimento al benessere del manifestarsi lo conosceva bene la protagonista di uno dei primi scritti di Arendt, Rahel Vernhagen: Storia di una donna ebrea. Ciò che Rahel desidera più di ogni altra cosa è la grande opportunità di stringere amicizia con la storia e col linguaggio; la sua grande ricerca è la "poesia," termine con il quale riassumeva la complessa condizione di chi capisce che l'amicizia del linguaggio e della storia, questa favolosa appartenenza e cittadinanza, la si riceve da un altro: è una investitura, un pass che ci può venire solo da un altro. Rahel aspira all'esodo, a uscire dal "silenzioso incantesimo degli accadimenti" e verso la luce dell'apparire, della visibilità, dell'esistenza. Nella sua maestosa opera Vita Activa: La Condizione Umana (1958) Arendt estende il sogno di Rahel a tutti noi, quando parla del fare umano, che si tratti di produzione di oggetti d'uso o di produzione creativa e intellettiva, come di una fondamentale facoltà umana che per sua natura è aperta al mondo e comunicativa e "trascende e libera un'appassionata intensità dall'imprigionamento nel sé, immettendola nel mondo". È proprio l'implosione prima dell'uscita nello spazio dell'apparenza che Agamben si sofferma a contemplare quando, in Che cos'è la filosofia (2016), paragona l'idea al corpo dell'amata dormiente, "involuta e raccolta in se stessa": "Come l'idea," egli scrive, "c'è e, insieme, non c'è. Sta davanti al nostro sguardo, ma perché ci fosse veramente occorrerebbe destarla e , così facendo la perderemmo".
La sparizione è legata a una certa idea di mondo. Agli albori del cambiamento epocale che avrebbe portato il termine "mondo" a non sembrare più sufficiente e a essere sostituito con l'idea di una condizione globale, Arendt, ormai diventata una filosofa americana dopo aver ottenuto la cittadinanza del suo paese di immigrazione nel 1951, si guarda indietro e in passi molto intensi di Vita Activa descrive la sfida dell' homo faber contro la condizione regressiva e arcaica, soprattutto in seno alla modernità, dell'animal laborans, piegato dal fardello del ciclo biologico, del metabolismo tra vita e natura che opprime e consuma ogni spazio vitale umano che separa nascita e la morte. Homo faber contrasta, ripara, redime ma più di una volta si ha la sensazione che Arendt, pensatrice che aveva analizzato il totalitarismo e descritto la rivoluzione, alluda a una forma di calma rivolta individuale, più alla stregua di dissidenti americani quali Thoreau e Emerson o anche Dickinson, che di soggetti collettivi. Per esempio quando scrive che gli oggetti che sono prodotti, quando li guardiamo, ci ricordano un "mondo" condiviso con gli altri; non sono solo oggetti perché hanno "la funzione di stabilizzare la vita umana," e "la loro oggettività sta nel fatto . . . che gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo". Oggetti d'uso come la sedia costituiscono il mondo perché ciò che intravvediamo in quella sedia vuota è l'idea di un legame con un altro, la possibilità di riconoscerci, cioè di risvegliarci a noi stessi, esattamente in quel legame, e, nonostante tutto, qualora questa possibilità smettesse di essere richiamata alla memoria saremmo consegnati a un fatale iato ermeneutico.
La sparizione ci riguarda ancora anche dopo la sostituzione di quello che Arendt chiamava mondo con una condizione globale, planetaria. Già in Vita Activa: La Condizione Umana Arendt parlava di una "continuità globale" che caratterizza la nostra contemporaneità e che si è sostituita al mondo quale lei lo aveva descritto. Dieci anni dopo la pubblicazione del suo libro, alla vigilia di Natale del 1968, un'immagine intitolata "Earthrise, " scattata da Frank Borman, Jim Lovell, and William Anders, l'equipaggio dell'Apollo 8, fissa il cambiamento.
L'immagine mostra la terra vista dalla luna che sorge, mediata dalla tecnologia, come per la prima volta, mettendoci al cospetto non più di un mondo antropocentrico ma di un globo in cui siamo specie tra le specie, in cui, sostengono oggi alcuni storici come Dipesh Chakrabarty, non è più abbastanza lottare contro la discriminazione, per il multiculturalismo e per le differenze, perché vi è in ballo la sopravvivenza o la sparizione dei viventi sul pianeta. Eppure le reazioni immediate all'immagine diffusa dalla NASA in quel Natale del 1968 resero ancora più attuale il problema che Arendt chiamava mondo. L'ecologista Donald Worster parlò di una "sottile patina di vita" che avvolge il pianeta. Arendt si riferiva a qualcosa di simile quando parlava di una "rete" di rapporti umani così poco concreta eppure così reale: un habitat simbolico, una tessitura nascosta ricopre quelle cose che, come la sedia vuota, costituiscono un mondo proprio perché ci rammentano di quel ponte gettato verso un altro, che chiunque egli sia (padre padrone o estraneo, poco importa) mi tocca anche quando mi volto, lo disprezzo, lo isolo, e ci consegna questa tessitura come patrimonio intangibile da tutelare. L'intreccio tra l'essere e il non-essere, tra manifestazione e nascondimento esiste forse per segnalare un sussulto non ancora ben descritto, che si consuma dentro di noi ogni volta che ci poniamo il problema di appartenere al mondo. Quest'appartenenza è possibile? O non si tratta piuttosto dello scossone perpetuo di un amor mundi radicale che non ti fa essere di niente e di nessuno, di nessun luogo, ma si accende ogni volta al cospetto dell'estraneo? In questa misteriosa appartenenza l'io si stabilizza e afferra la possibilità di qualcosa in comune. Si tratta forse di un mistero politico: uno sparire che è possibile illustrare con esempi – pensiamo a Simone Weil la quale chiamava sparizione "decreazione" – che probabilmente ci permettono di chiarire un pochino cosa intendiamo dire ma non esauriscono certo il catalogo di questi momenti di essere, come direbbe Virginia Woolf, riferendosi però a ben altra cosa, che ci riguardano e che possono determinare la forma di una vita.
*MENA MITRANO
Il suo libro più recente, In the Archive of Longing: Susan Sontag's Critical Modernism prosegue la sua ricerca sul legame tra modernismo estetico e pensiero critico. Collabora come Adjunct Professor of Literature presso la Loyola University Chicago, John Felice Rome Center, dove ha fondato e coordina il Discourses of Modernity Seminar, un laboratorio appartenente a una nuova rete di ricerca sull'Italian Thought.
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