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Laterale Film Festival, esplorare l'invisibile

a cura di ANDREA AMOROSO



Nei giorni del 12, 13 e 14 giugno si terrà a Cosenza la prima edizione del Laterale Film Festival, un festival internazionale non competitivo di arte cinematografica organizzato dall'Associazione Culturale Kamen. Abbiamo intervistato due dei promotori del festival, Mattia Biondi e Antonio Capocasale.

Zetaesse. Cosenza ospita la prima edizione del Laterale Film Festival, un festival internazionale di arte cinematografica. Andrea Amoroso intervista due dei promotori del festival, Mattia Biondi e Antonio Capocasale

Com’è nata l’idea del Laterale Film Festival?

MATTIA BIONDI – Direi che l'idea nasce per caso, quasi per gioco, ma si tratta indubbiamente del risultato di un sincero risentimento nei confronti di un certo modo di interpretare il cinema e, più in generale, l’arte; è per questa ragione che spesso ci piace definire il nostro progetto come un vero e necessario anti-festival: nessun premio, nessuna giuria, nessuna retorica, nessuno spettacolo. Semplicemente i film al centro di tutto, la qualità della selezione come motore trainante dell'iniziativa che, di conseguenza, diviene una vera e propria rassegna di arte cinematografica. Questo significa consegnare al buio della sala cinematografica lavori altrimenti irreperibili, tutta la bellezza sommersa che siamo capaci di rintracciare. Non a caso parliamo costantemente di macchina per esplorare l'invisibile. Direi che è proprio questa la nostra specificità.

ANTONIO CAPOCASALE – L’idea risponde quindi anche a una necessità molto forte e urgente, avvertita non solo da noi ma da tanti altri filmmakers, che vedono spesso il proprio lavoro trattato con una certa sciatteria: i loro sforzi trovano spesso una certa noncuranza da parte di chi avrebbe il compito di valorizzarli e invece legge tutto solo in termini di competizione, il che è penalizzante. Inteso in questo modo, il festival è uno strumento inadeguato e insufficiente. Al tempo stesso ci sembra importante tornare alla sala come luogo di condivisione fisica, non virtuale. Dare ai lavori lo spazio e il tempo che meritano.

Come mai questo nome?

MB – Avevamo bisogno di un nome semplice, ma che suonasse come una precisa presa di posizione, una netta scelta di campo. Laterale per noi significa militare fuori dal consueto centro produttivo e narrativo, operare nella convinzione di non dover accettare mai compromessi al ribasso: anteporre la qualità a tutto il resto.

AC – Questo nella convinzione che Cinema Laterale sia processo umano e non un prodotto industriale. Non ha un ritmo frenetico legato al culto del consumo, ma è accelerazioni e pause insieme. Le immagini che cerchiamo non vogliono imporsi come icone, ma essere una pura avventura da attraversare. Abbiamo scelto questo nome proprio per provare a tracciare vie di fuga laterali rispetto al centro.


Ci sembra che abbiate in mente una certa idea precisa di cinema. Che radici ha quest’idea?

MB – Prima di ogni altra cosa, siamo due filmmakers, e da tempo ci battiamo per il recupero di immagini essenziali. L'idea precisa di cinema di cui parli nasce quindi dal quotidiano, dal lavoro e dal sudore delle mani: è realmente una seconda pelle. Noi siamo per un cinema della sottrazione, per uno sguardo contemplativo sulle cose e sul divenire. Tale inclinazione è senza dubbio figlia di un gusto estetico e di certezze, anche etiche, forgiatesi nel tempo attraverso visioni e revisioni, riferimenti condivisi, penso a Béla Tarr, Tsai Ming-Liang, Brakhage, Mekas, e poi sofferenze, letture e letture sofferenti.

AC – E comunque sempre appassionate, mai sazie. Come non menzionare Lav Diaz, Tarkovskij, Sokurov, Kiarostami, Frammartino, Grifi. Pieni di immagini come siamo, raramente ci accorgiamo di quelle essenziali. Quindi l’essenzialità, la sottrazione, diventano modi per riaccostare le immagini e i suoni senza darli per scontati, come se non facessero parte del nostro quotidiano, ma fossero un oggetto nuovo. In sostanza abbiamo cercato dei lavori che avessero al loro cuore questo desiderio di tornare a interrogarsi sulle immagini, cercando nuove forme espressive attraverso modalità produttive autonome, le sole che di fatto consentono una ricerca di questo tipo.

MB – È la nostra stessa ricerca ad averci insegnato che la possibilità di godere della massima libertà espressiva è la prerogativa principale di ogni vero processo creativo. Siamo assolutamente convinti che il tutto possa venir detto col poco, magari col niente.

AC – In un film è bello vedere il cinema, non i capitoli di spesa, non i compromessi fatti per realizzarlo. La storia del cinema è piena di film meravigliosi che su carta sembravano offrire poche garanzie ai produttori: perché magari non mettevano in scena un cast stellare con nomi di punta, o per una trama che si riassume in due righe. Se sono dei capolavori è perché hanno fatto a meno di tutti quegli elementi puramente accessori che non bastano a fare del buon cinema. Al massimo servono a fare un film, ma non fanno cinema.

Alcune immagini tratte da alcuni fra i trenta lavori che saranno presentati nei prossimi giorni nella sala del Cinema San Nicola di Cosenza

È stato difficile reperire le trenta opere più quattro del festival?

MB – In realtà no. Le selezioni sono rimaste aperte per 6 mesi, un tempo significativo, e nel programma abbiamo inserito lavori che sono giunti in redazione già il primo o il secondo giorno. Questo per dire che abbiamo avuto sin dal principio le idee chiarissime sul tipo di festival che si andava a costruire, e questo ci ha facilitato molto nella scelta finale. Certamente si è rivelato arduo gestire l'incredibile mole di adesioni, oltre 3.000 opere provenienti da ogni parte del mondo; si tratta di dati reali.

AC – Abbiamo dedicato a ogni film la giusta attenzione e considerati i numeri questo lavoro ha portato via un bel po' di tempo ed energie. In ogni fase della selezione siamo rimasti fedeli al nostro sentire e abbiamo più volte messo da parte cortometraggi con produzioni importanti e cast brulicanti di facce note della televisione nostrana. Ci siamo, infine, presi la libertà di inserire nel programma lavori di autori cosentini da sempre attenti alle questioni di cui il festival si fa portavoce, lavori che presentano una tensione alla sperimentazione interessante e, in alcuni casi, commovente.

Agite in una realtà piccola e spesso dominata da logiche molto provinciali. Voi fate il tentativo di ampliare il giro, di puntare tutto. Pensate di durare?

MB – L'importanza di un festival di questo tipo è proprio da ricercare nella voglia matta che avvertiamo di abbattere imposizioni e preconcetti, omologazione e logiche provinciali. Sentiamo spesso parlare di industria del cinema per lo sviluppo regionale, di "cinema per il sociale", o di cinema come volano per la promozione dei nostri territori, tutti discorsi che non hanno nulla a che fare con la dimensione artistica del mezzo e con le sue potenzialità, e che livellano verso il basso ogni eventuale riflessione in merito. Perché è così difficile immaginare un'arte cinematografica completamente svincolata da tutte queste zavorre? Il cinema è innanzitutto una forma d'arte e in quanto tale deve scuotere, deve battere, deve perdersi e disperdersi. Deve risultare scomodo e misterioso. Fortemente ambiguo. Esiste un vuoto nell'offerta culturale della nostra città, esistono fruitori di cinema infelici e insoddisfatti, è inutile negarlo. E per questo che pensiamo il Festival come una reale occasione di scoperta per tutti, una grande possibilità.

AC – Personalmente resto abbastanza avvilito quando mi accorgo che “cinema per il sociale”, “cinema per lo sviluppo sociale”, sono definizioni usate un po’ alla buona per vendere un’iniziativa. Non dubito che lo si possa fare anche in buona fede, ma ho l’impressione che spesso si metta l’etichetta del sociale come se un progetto culturale non avesse già di suo appetibilità e importanza, il che tradisce, a mio avviso, non solo una scarsa attenzione ai fenomeni culturali, ma anche una forma di cinismo, che consiste in questo: strumentalizzare un tema sociale al fine di ottenere fondi e visibilità. E questo avviene nonostante sulla carta le iniziative (tantissime!) di questo genere, possano essere lodevoli, nobili. Queste iniziative tradiscono sia una cattiva visione della cultura che un’ottica strumentale dei temi sociali “caldi”, ed entrambi meriterebbero ben altra cura, attenzione, azioni. Inoltre, il cinema, quello vero, è già di suo un fatto politico, tanto più se come in questo caso si cerca la condivisione, la comunanza di uno spazio e di un progetto cinematografico, una libera circolazione di cultura non stagnante, non irrigidita… Laterale.



*ANDREA AMOROSO

Si occupa di letteratura italiana del Novecento, ma non solo. È uno dei sei fondatori di zetaesse. È una persona qualunque.

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