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Prendete con voi parole: il ruolo delle radici in ebraico

di DAVIDE SAPONARO



Zetaesse, Davide Saponaro, Quadro di Francesco Hayez, "La distruzione del tempio di Gerusalemme"
Francesco Hayez, "La distruzione del tempio di Gerusalemme" (1867)


Chi è colei che sale dal deserto come colonne di fumo,

profumata di mirra e di incenso e di ogni polvere di speziale?

(Cantico dei Cantici 3:6)



Forse tutte le lingue sono in un certo senso simili a piante. Hanno una vita di tipo vegetale: germogliano e crescono ramificandosi, a volte rimanendo vicine al suolo e a volte trasformandosi in alberi maestosi; dai loro rami spuntano gemme e frutti carichi di semi; maturano, a volte si seccano e muoiono, e dai millenari tronchi nascono nuovi germogli; tutte hanno delle radici, ma quelle di alcune di esse affiorano maggiormente in superficie. È il caso per esempio dell'ebraico, la cui crescita è iniziata millenni fa nell'antico Vicino Oriente; più di una volta è apparso irrimediabilmente seccato, ma ha invece continuato a germogliare inaspettatamente in tempi, modi e luoghi imprevisti, lungo i canali sotterranei di una permanente interazione tra esilio e ritorno.


Come le altre lingue della famiglia semitica, anche quella ebraica è interamente basata sul sistema delle radici consonantiche. Naturalmente spiegare a fondo questo sistema, o addirittura la struttura di una lingua, richiederebbe ben altro lavoro. Sia chiaro quindi che qui non si intende fornire alcun quadro completo ed esaustivo, ma solo qualche accenno che faccia da scusa e da terreno fertile per le nostre divagazioni. In breve, ognuna delle radici dell'ebraico è costituita da un gruppo di consonanti (nella stragrande maggioranza dei casi esse sono tre, ma non mancano radici di due o quattro lettere) e designa grosso modo un campo semantico, una "zona di significato". Combinando le tre consonanti con vocali e con consonanti aggiuntive si creano quelle che vengono chiamate forme, e ogni forma modifica il significato della radice in maniere grossomodo ricorrenti. Per esempio, il gruppo .צ.מ.ח tz-m-ch indica in generale il "germogliare" o "spuntare". Dunque avremo il nome tzèmach, "germoglio", il verbo in forma semplice tzamàch, "germogliare", la forma verbale intensiva tzimmèach, "crescere" o la causativa hitzmìach, "far germogliare", tutte attestate nella Bibbia. Nel tempo le radici possono divenire feconde in modo imprevedibile: per esempio nel periodo della Mishnà (all'incirca i primi due secoli della nostra era) troviamo tzimchòn, "verdura"; quasi due millenni dopo, da questa parola nasceranno nell'ebraico contemporaneo parlato in Israele tzimchonì, "vegetariano", e tzimchonùt, "vegetarianesimo". Così le radici ebraiche succhiano in qualche modo da un sotterraneo humus di significati, e venendo rimasticate e rimuginate assumono nuove forme e rilasciano la loro fertile linfa, un po' come in questo versetto dei Salmi:


אֱ֭מֶת מֵאֶ֣רֶץ תִּצְמָ֑ח וְ֝צֶ֗דֶק מִשָּׁמַ֥יִם נִשְׁקָֽף׃

Emèt meèretz titzmàch wetzèdeq mishamàim nishqàf

La verità germoglia dalla terra e la giustizia si rivela dal cielo (Sal. 85:12)


La verità germoglia dunque dalla terra. Da notare che in questo versetto verità e giustizia sono a estremi opposti, come accade anche nella realtà, dove esse sono troppo spesso difficili da conciliare; inoltre la verità è qui in terra, ma la vera giustizia noi umani possiamo al limite intravederla mentre si affaccia dalle sfere celesti. La lingua è dunque materica e materiale, nasce dalla materia e viene plasmata in forme sempre nuove.

Ma c'è di più: nel pensiero del giudaismo da duemila anni a questa parte, la lingua ebraica, le sue lettere e i suoi processi sono i veri e propri mattoni dell'universo, in un certo senso il suo DNA, come illustra un passo della Mishnà: Con dieci detti fu creato il mondo (Avòt 5:1). Generazioni di maestri e commentatori sono andati a scavare tra le pieghe della Scrittura, esaminandone al microscopio le parole e perfino gli spazi bianchi. Un esempio chiaro di questa idea sia connaturata al pensiero ebraico è la radice .ד.ב.ר d-b/v-r, "parola/parlare"(pur senza entrare nello spinoso campo della grammatica -il quadrilittero diqdùq, lett. "puntigliosità" ma anche "schiacciare" e "tritare"- sarà utile notare che la seconda lettera radicale, la bet, si pronuncerà b o v a seconda dei casi). Davàr significa "parola" ma anche "cosa", dalle fasi più antiche della lingua fino a oggi: quindi è lecito affermare che in ebraico le parole sono cose. La Parola per eccellenza è naturalmente quella divina, che crea l'universo rompendo il silenzio primordiale; essa tornerà poi nel mondo materiale con il Dibbùr, il "Parlare" o "Discorso" ossia la Rivelazione della Torà sotto il monte Sinai. Questa Parola con la P maiuscola non è un caso che si manifesti, al Sinai come ai profeti successivi, nel midbàr, il deserto, letteralmente "il luogo della Parola": là dove il rumore di fondo prodotto dallo schiamazzare umano è ridotto al minimo c'è il margine per ascoltare il respiro dell'Universo.

Le parole possono creare mondi ma anche essere letali, quando diventano dèver, "pestilenza".


Nell'anno 70 della nostra era il Tempio di Gerusalemme, cuore dell'identità ebraica, viene distrutto dai Romani nel tentativo di annientare l'identità del popolo, continuamente in rivolta contro l'Impero. In reazione a questa catastrofe l'ebraismo, prima fatto di cose (i sacrifici cruenti di tori, agnelli e montoni, il Tempio e i suoi riti, le famiglie sacerdotali uniche affidatarie del culto), riesce a sopravvivere pur disperso nel mondo e privo del suo centro vitale trasferendosi nella sfera immateriale. Esso si affida alle infinite interpretazioni (al plurale, perché c'è sempre spazio per più di una verità) dei testi e al loro studio, che sostituisce in toto la messa in pratica dei precetti non più applicabili. I sacrifici di animali vengono sostituiti dalla preghiera, nelle parole dei rabbini "il culto che è nel cuore"; Gerusalemme come centro di gravità intorno al quale tutto ruota rimane costantemente presente, ma Yerushalàim habenuyà, "la Gerusalemme ricostruita", luogo di annullamento degli opposti e di conclusione dei conflitti della Storia, dove bontà e verità si incontrano; giustizia e pace si abbracciano (Sal. 85:11) è fino a oggi (anche per chi nella Gerusalemme concreta risiede) un ideale, un punto di fuga all'orizzonte che si allontana di tanti passi quanti sono quelli che noi facciamo verso di essa. Insomma, gli ebrei partiranno per il loro lungo esilio portandosi dietro un'identità fatta non di materia, ma di parole, e saranno proprio queste parole a permettere loro di sopravvivere nelle tempeste della Diaspora.

Con un salto temporale tipicamente ebraico, circa otto secoli prima il profeta Osea già riassume questo mutamento in uno splendido versetto:


קְח֤וּ עִמָּכֶם֙ דְּבָרִ֔ים וְשׁ֖וּבוּ אֶל־ידוד אִמְר֣וּ אֵלָ֗יו כׇּל־תִּשָּׂ֤א עָוֺן֙ וְקַח־ט֔וֹב וּֽנְשַׁלְּמָ֥ה פָרִ֖ים שְׂפָתֵֽינוּ׃

Qechù ‘immakhèm devarìm weshùvu el A-onài imrù elàw kol tissà ‘awòn weqàch tov unshallemà farìm sefatènu

Prendete con voi parole, tornate al Signore e ditegli: "Perdona ogni colpa e accetta il bene, e sostituiremo ai tori le parole delle nostre labbra" (Os. 14:3)

 

Nota: in questo articolo è utilizzato per le parole ebraiche il sistema di trascrizione utilizzata nel Progetto Traduzione del Talmud Babilonese, al quale si rimanda; per la traduzione dei versetti biblici citati ci si attiene a quella dell'edizione a cura di rav. D. Disegni, ed. Giuntina (alcune parole e la loro traduzione sono state evidenziate in neretto). Sia chiaro, non abbiamo mai avuto intenzione di scrivere un testo sacro: dunque, per evitare le difficoltà che questa condizione comporta, il Nome divino impronunciabile espresso dal Tetragramma è stato modificato e scritto in ebraico ידוד e in caratteri latini A-onai.



*DAVIDE SAPONARO

Redattore editoriale presso il Progetto di Traduzione Talmud Babilonese e docente di Traduzione Arabo-Italiano. Studioso di ebraismo e lingue semitiche e suonatore di tamburi di varie fogge e provenienze.


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