di MASSIMO CELANI
Il luogo è esso stesso in te
Non sei tu che sei nel luogo, il luogo è in te
[Angelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico]
Qui c’è puzza di stallatico.
Come si chiamerà il prossimo agriturismo?
(con understatement che rasenta l’anonimato) il cavallo ?
(con melensa evocatività) il destriero ?
(con evocatività di segno opposto) il ronzino ?
(ambiguizzando su un genere musicale) hip-hop ?
(con disinvoltura tecnologica) farmer ?
(con sineddoche abusata) le selle ?
(con citazione vetero-comunista) lo zoccolo duro ?
(con evidente posizionamento agro-erotico) crazy horse ?
(o con umorismo tutto meridionale) ‘u ciuccio ?
Senza troppo scomodare Sant’Agostino e Jacques Lacan (quest’ultimo, santo subito!), ecco ribaltato il rapporto tra il nome e la cosa. Nomina non sunt consequentia rerum, rivisitazione blasfema in chiave di marketing e di pubblicità delle sempre spinose questioni di filosofia di linguaggio. I nomi, le parole, sono conseguenza delle cose? O forse possiamo affermare esattamente il contrario? E cosa vuol dire “conseguenza” in questo caso? Ciò che con mesto tecnicismo definiamo naming non è altro che il camuffamento di una pratica emula del padreterno. Coincidendo la creazione del mondo con un atto di nominazione.
Più sobriamente o – perlomeno – con competitività trattenuta nei confronti della sfera celeste, si tratta di trovare un fondamento alla marca. Altro che no logo! Con arguzia sottile mia moglie da tempo ha preso a scambiare la razza con la marca. Di un cane incontrato nelle rare passeggiate nel centro città chiederà con garbo: ”come si chiama” e subito dopo “che marca è?”. Spostamento preciso visto che le due domande rispondono alla necessità di verificarne l’indossabilità. Che sarebbe in fondo l’unico criterio serio (altro che creatività!) per stabilire l’efficacia delle denominazioni, del branding e più in generale della prassi pubblicitaria.
E PERCHÉ L'AULA SCOLASTICA NON È UNA SALA DA BAGNO?
Chōra ci giunge, come il nome,
Quando un nome viene, esso dice subito più del nome l’altro del nome
e l’altro come tale, di cui annuncia per l’appunto l’irruzione.
[Jacques Derrida, Il segreto del nome]
Quando nella salutistica del XVI secolo si accenna a certi odori del corpo, si parla anche della necessità di eliminarli. In quei casi però, più che a qualsiasi tipo di lavaggio, si ricorre a strofinamenti e profumi: bisogna frizionare la pelle con salviette profumate, asciugare con forza, cospargendovi del profumo, non propriamente di lavare. La toilette è nello stesso tempo asciutta ed energica. Si tratta di quelle che Georges Vigarello definisce “pratiche asciutte” (Lo sporco e il pulito, Marsilio, 1996). Ricordo di passaggio che escursioni e variazioni sull’uso dell’acqua e delle abluzioni sono evidentemente correlate alle fantasmatiche anatomo-fisiologiche sulla porosità della pelle. Così può succedere che dal medioevo, la pratica del bagno e del lavarsi venga abbandonato e si faccia un uso smodato di profumo per rimediare alla mancanza di igiene. Appaiono così le prime acque profumate, quali l’acqua di Ungheria, poi, più tardi, l’acqua di Colonia, commercializzata da Jean Marie Farina. (Segnalo sull’argomento una bella tesi di laurea di Valentina Pagano, Università di Salerno, 2003).
I profumi provengono da questa tradizione di toelettatura, ma la scoperta dei prodotti di sintesi, alla fine del secolo scorso, ha cambiato in modo considerevole sia il modo di elaborare il profumo, sia quello di percepirlo. È nella Belle Époque che si affacciano Jicky (1889, probabilmente la prima fragranza unisex), Origan (una metonimia del 1905), Chyprie (una sinestesia del 1917). Occorrerebbe spiegare a certi semiologi che Aimé Guerlain con Jicky inaugura una profumeria "emotiva", che non cerca più di imitare l'odore dei fiori, ma cerca piuttosto di suscitare emozioni, dato che viviamo un'estesia di fondo con il mondo e che comunichiamo perché siamo già in relazione e non per metterci in relazione.
Agli studiosi di marketing occorrerebbe anche ricordare che Chanel N°5 nasce nel 1921 e che Arpège (un “arpeggio” musicale) di Lanvin è del 1927: altro che line-extension, l’haute couture ha da sempre ragionato in termini sinestetici e di range brand.
Certo è che lo spazio borghese del bagno è quello con cui si cominciano a delineare quelle che saranno le nostre abitudini quotidiane.
Dalla cura di sé all’essere in forma, dallo star bene allo star meglio, dal fitness al wellness, le attenzioni rivolte a se stessi sono sempre più interiorizzate, e sempre più esplicitate, sempre più lontane dal semplice utilitarismo igienico. Promozione di pratiche narcisistiche, per le quali la stanza da bagno autorizza segreti rilassamenti.
In un mercato sempre più difficile e pericoloso, il prodotto sembra non poter più sopravvivere affidandosi alla sola evidenza della sua presenza e delle sue caratteristiche tradizionali (distribuzione, prezzo, qualità). Al contrario, esso deve arricchirsi di un supplemento di personalità, che gli viene dalla sua messa in discorso.
“L’identità è una dimensione più profonda dell’immagine, assai meno suscettibile di ondeggiamenti. Se l’immagine lavora nell’orizzonte dell’attualità, l’identità di marca si dispiega lungo un arco temporale più lungo e su criteri di memorabilità più complessi, in cui interagiscono le radici culturali della marca, la sua storia, le sue fonti di legittimazione. Più che di desiderabilità, essa rappresenta dunque un indicatore di fiducia e autorevolezza, cioè il potenziale di fidelizzazione” (C. Gily Reda, Frammenti di mondo, 1994).
Ci troviamo in presenza di una comunicazione che segue criteri fortemente omogenei: la materia pubblicitaria tradizionale degli annunci stampa e degli spot si riduce sensibilmente. Vengono meno certamente le bodycopy, molto spesso anche le headline, le baseline e i claim. Spesso si sottrae anche il colore e trionfa il bianco e nero o il seppia o in ogni caso il monocromatico. Gli elementi spariscono per dare spazio ad un’immagine evocativa, a una forte esperienza sensoriale, a un paesaggio, a una visione del mondo.
Non resta che un nome, una boccetta, un paesaggio. Spesso un paesaggio di corpi.
La pubblicità dei profumi rende dunque possibile studiare al microscopio, dunque in modalità ossessiva, fenomeni che altrove, nella comunicazione pubblicitaria tradizionale, ci si presentano in forme molto più complesse e intricate.
La pubblicità dei profumi opta per il sussurro o – del tutto – per il silenzio: “un silenzio, come tempo poetico omogeneo” (R. Barthes, Il grado zero della scrittura, 1982) che permette all’immagine di svelarsi in tutta la sua completezza e in tutta la sua complessità. S'inscrive dunque in una forma silenziaria (Paolo Valesio, Ascoltare il silenzio, 1986) di comunicazione che offre allo spettatore una tregua nell’animazione permanente del piccolo schermo o del traffico di pagina.
IL NOME DEI PROFUMI / IL PROFUMO DEI NOMI
Il significato di un nome – poco importa se inventato o meno – si produce solo come risultato della sua multipla combinazione (isotopia) con l’oggetto da un lato e con i messaggi pubblicitari dall’altro. Come accade in ogni altro caso di composizione isotopica, quando più segni si combinano a formare un “testo”, si verifica innanzi tutto un fenomeno di selezione semantica, vale a dire di diminuzione del ventaglio dei significati possibili per ciascun segno: così ogni tipo di combinazione d’insieme specifica e autorizza soltanto alcuni dei possibili percorsi di lettura.
Nella maggior parte dei casi, i nomi vengono estratti da repertori definiti, in quanto sono già stati nomi di qualcos’altro, cioè sono stai usati per far riferimento a una qualche entità particolare.
La denominazione già repertorializzata come tale e il nome che è già stato un nome risulta più impegnativo e più rigido nel trasporto dei valori che realizza: trascina con sé tutto un “mondo”, quindi una imponente ricchezza concettuale. L’entità commerciale nuova tende a includere, se vogliamo per “citazione”, alcuni valori dell’entità culturale “citata”: si opera su elementi simbolici già culturalmente codificati.
Alcune denominazioni tendono ad agire come focus, e quindi a focalizzare l’attenzione su certe affermazioni che esse compiono, su certe caratteristiche del prodotto che esse sembrano esplicitamente “predicare”, mentre altre tendono piuttosto a presentarsi come “nomi” e basta. La scelta di un nome a funzione “topicalizzante” è questione di strategie di immagine: le qualità del prodotto vengono implicitamente presupposte, date per note, ammesse come se fossero di consenso generale (Giulia Ceriani, Marketing moving: l’approccio semiotico, 2004).
Per alcuni nomi si è evidenziato il richiamo alla pelle, alla “vestibilità” di un profumo; un abito da indossare, un modo per denotare una caratteristica della personalità, di chi lo ha scelto come fragranza.
Profumi come: Touch, Organza, White, Black, Rouge, Blu, Le blue.
Il seguente gruppo sposa il concetto di infinità, temporale e spaziale, ma anche di entità sovrannaturale, energia cosmica, che poco lascia intendere ai comuni mortali, e molto lascia avvolto dal mistero. Nomi come: Farhenheit, Eternity, Chrome, Miracle, Energy, Light Blue, Presence.
Il profumo dell’ambiguità, della fragilità della natura umana che si lascia piegare dagli eventi: è un’essenza che crea disorientamento e confusione, voglia di sganciarsi dai canoni tradizionali ed evadere, anche lì dove non esiste verità assoluta, certezza divina. È il caso di: Uomo? Eclix, Contradiction, Escape, Fragile, Solo.
E arriva anche il momento in cui la realtà svanisce, sostituita da un “paradiso artificiale”, quello dei cattivi pensieri, delle colpe umane che prendono corpo, della natura bestiale mai sopita. Il profumo che stordisce, narcotizza, porta a galla i desideri reconditi, e dà luce al buio interiore. I nomi usati “sembrano profanare gli stessi presupposti di commerciabilità legale, sfidare il grado massimo della tensione applicabile”: Hashish, Opium, Paradiso, Mania, Krazy, Envy, Obsession, Hot, Rush, XS, X-centric, Hypnotic poison, Python.
Ma c’è spazio anche per i buoni sentimenti e la celebrazione dell’amore, evidenti in: J’adore, Truth, Romance, Declaration, Tresor, So pretty, Emotion, Interactive.
Il profumo diventa simbolo di uno stile di vita, evoca elementi contestuali e situazioni. Delimita porzioni di “mondo”, dove le persone scelgono di adeguarsi ad un canovaccio simbolico, e di affermare la propria scelta con incisività e determinazione. Facile trovarsi in tal caso in presenza di citazioni esplicite. E’ il caso di That’s amore (citazione di una celebre canzone di Dean Martin che prima diviene un profumo di Gay Mattiolo e più tardi curiosamente cancellata da un’omonima linea di piatti pronti della Findus), Theorema (Fendi/Pasolini). Manifesto (Isabella Rossellini/Karl Marx), Dolce vita (Dior/Fellini).
Il profumo che diventa stimolo di uno stato, simbolo di un modello comportamentale, di un carattere. Citazioni implicite, per riferirsi a una tipologia femminile e maschile, quali: The dreamer, Kouros, Eau savage, Fragile, Arrogance, X-centric, Krazy, Romance, Tresor, Le male, L’homme, A men, Aquaman, Cheap and chic.
Riorganizzandoli in cluster secondo criteri retorici.
METONIMICI
Fluid (Iceberg)
Eau par Kenzo (Kenzo)
Eau by Alissa Ashley
Acqua di Giò (G. Armani)
Eau de Rochas (Rochas)
L’Eau de Cheap&Chic (Moschino)
Vetiver (Guerlain)
Ô (Lancôme)
Romeo (R. Gigli)
Giò (Giorgio Armani)
Azzaro (Loris Azzaro)
Boss (Hugo Boss)
Roma (Laura Biagiotti)
PARANOMASICI/ANAGRAMMATICI
Mania (Armani)
Le blue (Le Copains)
Blu (Bulgari)
Versus (Versace)
V’è (Versace)
Krazy Krizia (Krizia)
J’adore (Dior)
Coriolan (Guerlain)
Ô (Lancôme)
ACRONIMI
Ckbe (Calvin Klein)
Ckone (Calvin Klein)
Giò (Giorgio Armani)
D&G (Dolce e Gabbana)
TOPONIMI
Casran (Chopard)
Mahora (Guerlain)
24, Fauborg (Hermes)
Shalimar (Guerlain)
Roma (L. Biagiotti)
NEL NOME DEL CANE
Da bambino, quando scrissi per la prima volta il mio nome,
ebbi coscienza di iniziare un libro.
[Edmond Jabès, Il libro delle interrogazioni]
Troppi cani, basta cani. “Il cane” e “canile” li ho pure nel cognome, come anagrammi. Secondo un mio amico analista di scuola bartezzaghiana, giocando col mio nome e cognome è pure possibile un “si somma il cane”. La cosa ossessiva si è appalesata nell’arco degli ultimi trent’anni. Troppi ne ho adottati, curati e – infine – uorvicati (termine dialettale cosentino che sta per “seppellire”).
Questo testo è per loro, canidi ignoti ma dalla spiccata personalità di marca.
Sabbia
Capellone
Cavallo
Bracco
Peppina
Sei
Sette
Tigrotto
Biancogrosso
Nerinella
Lauro
Laura
Ballerina
Boss
Buffo
Biancona
Peppino
Rossini
Grigione
Salterella
Maremma
Capellone II
Pupino
Ciccio-ciuccio
Duchessa
Liscia
Gassata
Ferrarelle
Pasquale
Carina
Freddy
Schiva
Luisella
Stella
Birba
Pallino
Kelly
Robin
Nerina
Nerona
Silvana
Doby
Peggy
Rosa
Bacino
Ciccio bianco
Occhi azzurri
Leda
Carbonella
Nera
Jack
Stellina
Jason
Walter
Luna
Rita
Magro
Magro-magro
Chicca
Sciagura
Gal
Braccobaldo
Frimpillino
Pilli-pilli
Mia
Tua
Mac
Scottex
Cavalletta
Whisky
Neve
Al Nanni Balestrini di Basta Cani e a Tiziana B, nota cinofila senza il cui operato istituzionale gli animalisti calabresi finalmente tirerebbero un sospiro di sollievo.
*MASSIMO CELANI
Scrive testi pubblicitari e si occupa di cani randagi. Per quantità e cura i secondi superano i primi.
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