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Legarsi alla montagna. L'arte di Maria Lai

di DIEGO FERRANTE



Zetaesse. Diego Ferrante. In Maria Lai i fili e i nodi attenuano strappi e separazioni. Sono dei legami che uniscono senza trasformare le cose: un nodo, infatti, può sempre essere tagliato o sfilato

Nel 1979 il sindaco di Ulassai chiese a Maria Lai di realizzare un monumento ai caduti che permettesse al paese di comparire sulle carte geografiche e fare ingresso sulla scena della storia. L’artista oppose un rifiuto fermo: per fare la storia, rispose, era necessario realizzare qualcosa senza precedenti. Trascorse un anno e il consiglio comunale tornò a contattarla per sapere cosa avesse in mente.

Lai tornò nel suo paese di nascita, iniziò a parlare con le persone che incontrava per strada e si rese conto che, tra le numerose leggende diffuse nell’Ogliastra, a Ulassai sia gli anziani che i bambini conoscevano la storia della grotta degli antichi. La storia si tramandava di generazione in generazione e racconta di una bambina che salì la montagna per portare da mangiare ai pastori. D’un tratto cominciò a piovere e tutti corsero a ripararsi in una grotta poco distante. Attratta da un nastro celeste che volava in cielo, la bambina si allontanò nella pioggia e in quel frangente la grotta franò su pastori e greggi.

Era il ricordo delle fiabe e dei miti ad accomunare le persone e permettere la creazione di un linguaggio comune. Il racconto riuniva ciascuno di loro in un senso di intimità – anche dura o irrequieta. Lai propose, allora, di stringere Ulassai con un nastro celeste per poi fissare quella lunga striscia di tessuto sulla montagna. Dopo una prima esitazione, la partecipazione crebbe a macchia d’olio. L’unico commerciante di stoffe del paese donò i rotoli di denim da cui si ricavarono ventisei chilometri di nastro.


“A quel punto il problema erano i rancori, non ci si può legare facilmente con tutti. Se io mi lego a quello, quello mi ha fatto il malocchio… storie terribili di capre rubate, di morti violente… legarsi a volte compromette la dignità di una famiglia… Il problema è stato risolto stabilendo un codice: dove il nastro passava diritto c’era rancore, dove c’era l’amicizia si facevano uno o più nodi, dove c’era l’amore si appendevano i pani delle feste”.

Legarsi alla montagna si basava su gesti semplici, come il correre e l’annodare, per dar forma a un’arte che non si esprimesse in oggetti ma in rapporti, che stabilisse delle connessioni senza chiudere gli occhi sulla loro natura momentanea o precaria. L’8 settembre 1981, al momento convenuto, gli abitanti di Ulassai riempirono le strade del paese e si legarono scegliendo il nodo con cui unire la propria casa alle altre. Il giorno successivo il nastro fu fissato su una roccia a picco sul paese: “Visto dal basso sembrava un getto d’acqua che tremava al vento”.



II tema del legare e del cucire attraversa la produzione di Maria Lai dai primi anni Settanta – quando realizza dei tessuti imbastiti col filo della macchina da cucire – e trova un naturale compimento nei Libri e nelle Cartografie che diverranno tra le sue opere più iconiche.

Attraverso dei segni privi di senso verbale che si sostituiscono alla scrittura, l'arte di Lai si compone di silenzi e vuoti per dar corpo a un fatto astratto – come i sassi scavati dal vento o le ultime sculture di Arturo Martini (di cui l'artista è stata allieva) –. Le pagine illeggibili, infatti, possono essere lette in modi infiniti, ma questa scrittura senza alfabeto mostra anche i bordi esterni del linguaggio, e lo mettono alla prova con nodi e cuciture perché “il filo nel mito di Arianna aiuta a uscire dal labirinto”.

Che cosa indica questo limite del linguaggio e del significato? È possibile farne esperienza o tornare indietro? Si tratta come per Agamben di smettere di immaginare parole al di là della parola? “Tornati da dove non siamo mai stati, siamo finalmente qui, dove non potremo più tornare”.

In Lai i fili attenuano strappi e separazioni, sono legami che uniscono senza trasformare le cose: un nodo può sempre essere tagliato o sfilato, “luoghi e tracce del pensiero tornano intatti, affidati alla memoria, che è altro filo, altro cucire.” Quest’arte fatta di memoria e gesti ordinari, che non teme il silenzio, lega le proprie parole illeggibili a oggetti quotidiani. La vita quotidiana è del resto tenuta insieme da nodi e legacci, e se le cuciture saltano, la parola si disfa.



Nel numero di Zetaesse dedicato ai nodi affronteremo con Eda Özbakay il tema della legatura e del contrappunto nella musica di Bach e l’utilizzo fattone da Glenn Gould per la realizzazione della sua Trilogia della solitudine. Ospiteremo Federico Federici con alcuni dei suoi lavori di poesia asemica che interrogano l’apparente sfaldatura del linguaggio e la forza decostruttiva di questa scrittura.

Il progetto fotografico di Ilaria Abbiento traccia sul golfo di Napoli un itinerario fatto di variazioni e ricordi nascosti. E se le sue fotografie sulle onde del mare producono una dilatazione dello spazio, una proiezione sulla sua lontananza, l’attento lavoro di ricerca di Marco Versiero ci porta a esaminare da vicino l’evoluzione del nodo vinciano – dai disegni del Codice Atlantico agli alberi che adornano la Sala delle Asse del Castello Sforzesco –, quasi a scorgere nella loro ricorsività una firma se non un autoritratto.

Questi sono solo alcuni degli intrecci che esploreremo nelle prossime settimane, senza dimenticare gli approfondimenti sull'erotismo del bondage e delle corde, così come sul rapporto tra attività onirica e topologia, o sulle fotografie d’infanzia e la difficoltà di restare fedeli ai propri ricordi. Proprio quest’ultima questione sarà il filo conduttore di molti contributi, riportandoci alla sensibilità artistica di Lai e ad un tema guida: come fare ad abitare lo spazio della memoria (personale o collettiva)? Come fare a tenere i fili di tutto?

È qui che ai venti non è più concesso passare.



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